Ospite dei Musei Civici di Reggio Emilia, sono stata coinvolta in un progetto sociale che pone l’attenzione sul tema dell’incontro tra fragilità e creatività, denominato Incontri! Arte e persone. Ad accompagnarmi nella realizzazione di un’opera, sei persone adulte con differenti disabilità.
Incuriosita dalla ricca collezione custodita ed esposta nel museo, il focus è caduto su ciò che non è visibile al pubblico: una serie di erbari custoditi in un vecchio armadio nella Saletta della Botanica.
Nonostante il carattere scientifico che li contraddistingue (famosa è la collezione settecentesca di Filippo Re), ci siamo soffermati sullo “sguardo romantico” scoperto sfogliando un erbario dell’allora quattordicenne Antonio Casoli Cremona (1885) che catalogava in maniera amatoriale tutte le erbe presenti nel suo giardino e dintorni della città. Per l’approccio poco scientifico, per lo sguardo ingenuo ed il carattere dilettantistico, tutti noi siamo stati portati a riflettere su alcuni concetti: cogliere la bellezza delle piccole cose; ricercare la bellezza nella diversità; osservare la diversità e provare a trasformarla in una risorsa.
Seguendo lo stesso percorso emozionale, ci siamo cimentati nell’osservazione della natura, nell’approccio al “gesto di cura” e successivamente alla realizzazione di un erbario rayografico, dove il concetto di bellezza si è allargato fino ad includere l’imperfezione, la fragilità e la marginalità, grazie all’osservazione di erbe spontanee – per molti denominate “erbacce” – presenti nei dintorni della nostra sede operativa. Inoltre, contrariamente all’approccio fotografico digitale, dove peculiare è la ricerca della perfezione attraverso altissime risoluzioni e avanzate post-produzioni, in questo lavoro sarebbe emersa l’umanità, intesa come assenza di controllo sulla materia e alta percentuale di errore. Secondo una visione inclusiva la sperimentazione diventa parte integrante del processo creativo e contribuisce al risultato finale.
Per quattro mesi, abbiamo lavorato in una “camera oscura” (ricavata in un ex lavatoio di marmi dei Musei Civici) ed ho cercato si far avvicinare i gruppi ad un’attività lontana dalla proposta didattica convenzionale: la stampa fotografica a contatto, nello specifico la callitipia. Oltre ad averne dimestichezza, ho scelto questa pratica per alcuni meccanismi che poteva scatenare: curiosità verso un mondo fotografico poco conosciuto; possibilità di innescare un sistema di cooperazione attraverso le fasi di preparazione e stampa (preparazione dell’emulsione fotosensibile, del fissaggio, composizione, impressione e stampa).
«I partecipanti hanno dedicato attenzione alle forme della natura nella loro varietà e diversità, prendendo in considerazione le erbe spontanee trovate intorno a loro (quante erbe vediamo crescere nelle pieghe dei marciapiedi, nei giardini e negli orti, ai bordi delle strade – esse sono davvero parte del nostro universo quotidiano). Le hanno poi trasformate, o meglio le hanno viste trasformarsi in impronte sulla carta fotografica grazie a una antica tecnica: quella del disegno fotogenico, tanto sperimentata da William Henry Fox Talbot, uno degli inventori della fotografia, e poi ripresa e a noi nota con il termine fotogramma da molti artisti delle avanguardie, da Man Ray (il rayograph) a Laszlo Moholy-Nagy, da Christian Schad (la schadografia, termine coniato da Tristan Tzara sul gioco Schad-shadow) a Luigi Veronesi, che la praticò per molti decenni, ben oltre il momento delle avanguardie, una procedura assai essenziale che non necessita della macchina fotografica ma si basa sulla diretta azione della luce su un supporto sensibile sul quale venga posato un oggetto. Questa scelta operativa di Alessandra Calò ha posto il gruppo a contatto con le origini stesse della fotografia (che si collegano alle sperimentazioni in campo calcografico), con il clima sperimentale e per certi aspetti ludico delle avanguardie, e anche con un metodo di lavoro molto immediato, intuitivo e di forte efficace didattica, fondato sui concetti di luce e di impronta, fondamentali per capire la fotografia.»
Roberta Valtorta
In una seconda fase del percorso, ho deciso di introdurre nel gruppo concetti più complessi legati alla percezione dell’immagine. Immaginare è la prima fotografia: una rappresentazione mentale consapevole di qualcosa che non è presente davanti a noi in quel momento ma ci può influenzare tanto quanto un’immagine reale.
Ho chiesto al gruppo INSIEME!Arte&Persone di vedere la loro prima fotografia: chiudi gli occhi e immagina l’erbario, quello che hai raccolto e che raccoglierai. Le vedi le foglie, lo stelo, i petali? Puoi raccoglierle? Immaginare è la capacità di visualizzare consciamente qualcosa ed ha a che fare con l’occhio della mente. Nella rappresentazione del gesto di cura evocato dai protagonisti, l’azione immaginata diventa iconica e, grazie alla sovrapposizione delle immagini, innesca una simbiosi tra la sua umanità e la natura raffigurata.
«Questo gesto delicato, rispettoso, un gesto che non può essere violento né veloce ma deve, per realizzarsi, essere fine e calibrato, è simbolo di osservazione, attenzione, cura, scelta. L’unione delle due immagini racconta un processo di lavoro – cogliere e impressionare – e nel contempo intreccia concettualmente due modi di essere della fotografia: quello che fa derivare l’immagine dall’oggetto stesso, senza mediazione tecnologica, e quello che, invece, prende la scena, la realtà potremmo dire, come riferimento per la ripresa attraverso la macchina fotografica»
Roberta Valtorta
Restando fedele al mio modus operandi, dove la sovrapposizione di immagini e simboli crea una nuova visione del reale, nasce quest’opera.
Herbarium è il risultato di una sovrapposizione di rayogrammi, fotografie ed una serie di materiali d’archivio rielaborati. Per creare un ponte temporale, ho infatti scelto le parole di Antonio che, con la sua calligrafia di parole semplici, denotano un animo senza troppe sovrastrutture, proprio come quello del mio gruppo di lavoro. Herbarium, potrei definirlo il risultato di un percorso condiviso, durato quattro mesi, dove la pratica artistica si fonde con la sensibilità dei gesti e lo sguardo stupito del gruppo. Lo stesso di quando, sfogliando le pagine dell’antico erbario, qualcuno ha esclamato “i fiori sono rimasti rosa!”.
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