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Gli ectoplasmi sperimentali di Giacomo Vanetti

di Pio Tarantini

After Dark (2009) - © Giacomo Vanetti

Si allarga sempre più, come forse è giusto che sia, l’area di fotografi che si servono della sperimentazione allargando i confini del classico concetto di fotografia intesa come procedimento inteso a cogliere tracce di realtà. A dire il vero questa tendenza nell’uso del mezzo non si configura come una novità: basti pensare che fin dalle origini della fotografia la sperimentazione ha sempre suscitato interesse e applicazione da parte dei fotografi, professionisti e amatori. Dai pionieri ottocenteschi del pittorialismo alla rivoluzione delle avanguardie storiche nei primi decenni del Novecento sono stati tanti i fotografi che non si accontentavano di riprese realistiche, di documentare semplicemente luoghi, persone ed eventi che caratterizzano il mondo ma cercavano nuove strade espressive in cui si abbandonava il concetto di mimesi, di analogia tra la realtà visibile e la sua rappresentazione visiva.

Questo allargamento operativo e concettuale della pratica fotografica si è consolidato ancor più nei decenni più recenti in linea con una trasversalità espressiva che caratterizza sempre più ogni ambito artistico.

Raindeaf (2019) – © Giacomo Vanetti

Giacomo Vanetti (Varese, 1974) con il suo percorso formativo articolato che va da studi universitari di Grafica e Disegno industriale a quelli di fotografia si è conquistato un suo spazio importante e riconosciuto nell’ambito della cosiddetta “fotografia d’arte”. Accanito sperimentatore si muove su un terreno di confine in cui convivono antiche pratiche di sperimentazione fotografica chimico-analogica ma anche digitale con l’uso di procedimenti di stampa complessi e raffinati insieme alla coabitazione con altri medium come l’uso della ripresa televisiva o l’accoppiamento con musiche sperimentali.

I risultati sono vari e intriganti e in questa sede mi limito ad accennare a un suo preciso lavoro, white light, incentrato soprattutto su figure umane evanescenti, a volte manipolate fino al punto da perdere consistenza e attestarsi su un piano di delicata e problematica percezione visiva. Questo lavoro – che nel corso del tempo ha avuto buona fortuna espositiva – si caratterizza anche per l’estrema coerenza tra i soggetti rappresentati così come si è accennato e la concreta fattura in cui si manifestano: si tratta di stampe su carte particolari, dove l’immagine è passata attraverso varie manipolazioni come la stampa di immagini originariamente realizzate su Polaroid o fotogrammi carpiti da riprese filmiche.

You Are Alone (2015) - © Giacomo Vanetti

In genere i soggetti di questo lavoro sono figure femminili spesso ridotte a ectoplasmi che si aggirano su fondi molto chiari o al contrario su fondi decisamente scuri dove si alternano molte delle possibilità espressive che la storia della sperimentazione fotografica ha insegnato, dagli effetti grafico-pittorici all’essenzialità rigorosa di certa arte minimalista o astratta.

Scriveva al proposito Ilona Barbuti in un testo pubblicato su un agile e prezioso catalogo che ha accompagnato una delle esibizioni di questo lavoro: «[…] white light affiora gradualmente dal fondo cavernoso dell’edificio con la calma lenta di chi ha una storia da raccontare, dove ogni parola diviene quella definitiva, verso la sua dissolvenza nell’esercizio costante della luce.»

We Are In This Together (2012) - © Giacomo Vanetti

E sull’uso della luce in queste fotografie atipiche Simone Ceriani concludeva un altro testo del volumetto scrivendo: «[…] (La luce, ndr) è come un demiurgo violento e irrazionale, che continuamente crea nell’atto di distruggere. Acceca e dona una visione diversa. Destruttura e immerge ogni cosa in un flusso pervasivo e incessante. E tutto è luce.»

Giacomo Vanetti

White Light, con testi di Ilona Barbuti e Simone Ceriani

Pagine 32, formato cm 20×20; edizione a cura dello Spazio Cesare da Sesto, Sesto Calende 2017

www.giacomovanetti.com

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