Poche righe e qualche immagine dedicati a te che per prima hai visto in me quello che io ancora non sapevo.
E’ Marzo del 1982, è Cina.
Siamo in quattro, ma è come se fossimo noi due soli in un mondo sconosciuto.
Lanfranco Colombo e Giorgio Lotti sono troppo presi: il primo a scattare a raffica su tutto ciò che si muove, il secondo esce la mattina presto e lo rivediamo solo a tarda sera, aria di un ennesimo grande reportage per Epoca.
Parliamo tanto di noi, ci conosciamo perché abbiamo voglia di qualcuno che stia ad ascoltarci senza interrompere, senza giudicare e senza indirizzarci verso… “la meraviglia di quel bambino”… “la bellezza di quella scultura cinese”… “la maestosità di quel panorama”…
Scaviamo invece nelle nostre vite e ci soffermiamo sui punti difficili, quelli che ci hanno fatto soffrire e osserviamo le voglie nascoste per far sì che, affiorando, possano prendere il volo.
Ho ventiquattro anni, tu ne hai ventisei più di me.
Non è vero. Quello che c’è scritto sui nostri passaporti è menzogna.
Qualcuno che non capisce niente di numeri deve aver fatto confusione e allora noi ci riprendiamo ciò che ci spetta di diritto: io gioco a fare tuo papà, tu mia sorella, io il tuo compagno di banco dell’asilo, tu mia madre, insieme siamo coetanei al liceo e ci confidiamo da amici, ci innamoriamo da ventenni.
Entri con delicatezza nella mia vita, piazzi un cuneo di acciaio e sferri il colpo di grazia al cambiamento tanto desiderato di dedicare la mia esistenza alle immagini, abbandonando lì, sul ciglio di una strada asfaltata, il doppiopetto gessato.
“Esplora i nuovi sentieri che emergono dal tuo profondo e vai, cammina fino in cima anche se ti sbucci le ginocchia”- mi dici-, e io stento a comprendere, o faccio finta perché mi sembra un colle troppo impervio, una salita impossibile.
Come ci sei riuscita Giuli? Da Maestra, da Psicologa, da Amata.
Venti giorni sono tanti, la Cina immensa, cosa farei se non ci fossi tu?
Sposti di continuo i confini del mio vedere, m’insegni come si può istruire in silenzio, dote che tante volte mi hai riconosciuto di aver appreso.
Forse l’ho già dentro, ma tu mi mostri come metterlo in pratica, e trasmetterlo agli altri.
Esternare le proprie sensazioni attraverso un piccolo occhio di vetro, la magia che continua nel buio intimo della camera oscura, la contemplazione privata di quello che vediamo in una stampa. Che è quello che scopriamo di noi.
Siamo la vicendevole valvola di sfogo emotivo e ci puntelliamo l’una con l’altro facendo crescere giorno dopo giorno una storia che rimarrà nelle nostre pagine di vita, ormai hai fatto breccia e come un tatuaggio mi hai segnato il cuore. E so di aver segnato il tuo.
L’indelebile forza della condivisione di vedute esalta e spariglia l’approccio banale di un click scattato con leggerezza e superficialità. Ora mi costringi a pensare di più, me l’hai dato e me lo tengo stretto fra le mie cose più care.
Ti passo i miei scritti sul volo che da Guilin ci porta a Shanghai.
“Non posso leggere niente, mi dici, niente che mi possa influenzare o distrarre dai miei pensieri, comunque grazie… li tengo come un dono”.
Io non me la prendo, tanto sono convinto che nel giro di qualche ora cambierai idea.
“E’ il più bel pezzo di letteratura giovanile che abbia mai letto, gronda sangue e voglie, getti le tue ansie sulla carta che sembrano foto…”
Adesso mi conosci meglio, Giuliana mia, i pensieri scritti rimangono per sempre a segnare i nostri anni, a farci ricordare i passaggi di tempo.
E’ giugno adesso, del 1996, e siamo in Salento.
Hai organizzato un workshop sul nudo per le tue allieve di Donna Fotografa.
Mi hai chiamato come docente, amico, aiutante.
Sono onorato e prima di partire per quest’avventura ribadisco il fatto che lo farò a patto che ci siano solo donne, per cui i quattro maschi iscritti dovranno rinunciare.
Ho visto troppi Sicof, troppi set con una modella bersagliata da occhi impudici e ascoltato commenti espliciti e disgustosi. Tu sei d’accordo. Il risultato sarà magnifico, vedrai.
Resti in disparte, sai che sto condividendo luoghi miei e che sto passando alle tue allieve delle sensazioni che loro dovranno trasformare in immagini. Quando intervieni lo fai con la delicatezza che ti appartiene così profondamente, e si trasforma in un’ombra riflessa da un ramo che accarezza la pelle.
Ci prendiamo un giorno di pausa per giocare con la mia Deardorff e con le grandi Polaroid 20×25. Recitiamo e ridiamo e gustiamo quello che la fotografia può dare anche come esercizio di spensieratezza.
Al ritorno mi doni un piccolo album ricordo, che è il tuo straordinario modo di ringraziare.
Termino qui, col titolo di un piccolo libretto rosa che mi piace osservare di continuo e che ha raccontato il nostro inizio insieme… “Seguendoti con discrezione…”
Ti abbraccio forte, so che continuerai a farlo anche dai tuoi cieli virati al selenio e tinti col tè.
Arrivederci amica mia cara,
tuo Giò.
Altri articoli di questo autore
Scartabellando nell’archivio
A Due Dita dal Cuore [Giovanni Cabassi]
L’Albero. Genealogia recente di una Famiglia milanese [Giovanni Cabassi]
Giovanni Cabassi
Giovanni Cabassi classe 1957 è nato, lavorato e vissuto a Milano, e per via delle sue origini spesso, durante l’anno, vive e trascorre il suo tempo in Salento.
Affascinato dalla fotografia sin da bambino, ha iniziato a muovere i primi passi, ancora adolescente con una Leica M3 e una Rolleiflex 2,8F ricevute in regalo dai suoi genitori.
Giovanni Cabassi ha frequentato le prime mostre fotografiche della Galleria Il Diaframma.
Apre, all’età di 30 anni, il suo primo studio.
La sua vena artistica gli ha permesso di esprimere, attraverso i suoi scatti, la sua spiccata personalità.
Ha esposto in mostre collettive e personali, è autore di diverse monografie, ha tenuto incontri e workshop.
Usa con disinvoltura una Deardorff 8×10 pollici del 1947 e alcune Hasselblad con il dorso digitale.
No comment yet, add your voice below!