Una signora sosta davanti a un negozio di generi alimentari in attesa dei clienti; poco più in là, delle donne incedono con le ceste di vimini saldamente poggiate sul loro capo. Nel ritratto collettivo compaiono uomini di tutte le età, mentre l’unica donna a scorgersi è colta in movimento sullo sfondo dell’immagine. Sorridono gli artigiani, felici dello scatto e fieri del proprio lavoro che, giorno dopo giorno, svolgono con costanza; così come concentrati ed espressivi sono i gesti dei signori che conversano animatamente.
Questi sono solo alcuni dei 1801 fotogrammi realizzati da Frank Cancian a Lacedonia, in provincia di Avellino, paese dove giunge il 5 gennaio 1957 e da cui riparte il 5 luglio dello stesso anno per far ritorno negli Stati Uniti e intraprendere la lunga carriera che lo porterà a diventare antropologo.
Un lavoro che necessitava di un’attenta divulgazione e che ha trovato forma compiuta nella mostra Frank Cancian. Un paese del Mezzogiorno italiano, Lacedonia – 1957, curata dall’antropologo Francesco Faeta presso il Museo delle Civiltà (MuCiv) di Roma.
Il curatore dell’esposizione, nel catalogo edito da Postcart Edizioni, affronta – come suo uso – un’esaustiva riflessione sulla diffusione delle scienze sociali durante gli anni postbellici, periodo cruciale per la definizione metodologica della materia; facendo emergere al contempo una nitida descrizione del contesto socio-politico e degli stretti legami intercorsi tra Italia e Stati Uniti in questo stesso periodo, senza mai perdere di vista la solida analisi delle fonti culturali, visive e metodologiche che segnano la formazione dell’antropologo americano.
Frank Cancian nasce nel 1934 a Stafford Springs, in Connecticut, da genitori italiani emigrati negli Stati Uniti; un’origine familiare che segna il suo modo di essere e la sua formazione culturale, determinando la vocazione per lo studio dell’antropologia, a cui unisce la passione verso la fotografia, coltivata fin da giovanissimo.
Concluso il college, grazie alla tesi sulle popolazioni Apache in Arizona, Cancian vince la prestigiosa borsa di studio del “Fulbright Program”, che gli da la possibilità di intraprendere un lungo viaggio in Italia: interesse mai venuto meno e acuitosi dopo aver letto le penetranti descrizioni sulla condizione dei contadini meridionali nel libro Fontamara di Ignazio Silone.
Giunto a Roma nel 1956, Cancian incontra una figura chiave per lo scambio culturale tra le Nazioni, Cipriana Artom Scelba direttrice del “Programma Fulbright” in Italia fin dalla sua data di fondazione, la quale credeva nella formazione di studiosi meritevoli invitati a svolgere le proprie ricerche sul campo. Cancian è uno di questi e, una volta esaminato il lavoro sui nativi americani, Artom Scelba acconsente allo svolgimento di una ricerca di taglio antropologico e non filosofico, primo campo d’indagine del giovane studioso, investendo una parte dell’assegno nell’acquisto di pellicole fotografiche per svolgere quello che sarà il suo secondo fieldwork.
La direttrice lo mette in contatto con Tullio Tentori, antropologo e direttore del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, da poco reduce da una seconda esperienza di studio negli Stati Uniti nell’ambito degli scambi culturali legati al programma. È lui a indirizzarlo verso Lacedonia, paese in cui Cancian giunge portando co sé gli immancabili taccuini e le sue due Nikon S 2, una con obiettivo da 50 mm e l’altra con ottiche da 35 e da 85 mm.
A far chiarezza sulla metodologia adottata dallo studioso è Francesco Faeta, che scrive: “l’attività di Cancian in paese è stata registrata nei suoi taccuini […] redatti con una certa continuità dal momento del suo arrivo sino a quello della sua partenza. Se ne può agevolmente dedurre lo stile di lavoro che caratterizzò il suo soggiorno. Un frequente lasciarsi andare al ritmo della vita locale e all’iniziativa degli ospiti, condividendo il cibo, momenti festivi e giochi a carte, passeggiando e conversando per le strade e le piazze paesane, con la convinzione che la comprensione della dimensione locale e delle dinamiche paesane derivasse anche da ciò; uno scambio serrato, anche di natura culturale, con le sue ’guide native’ e con gli assistenti sociali di Tentori, e una frequentazione sistematica di alcuni interlocutori privilegiati […] Una partecipazione emotiva intensa e discreta al contempo, basata su una naturale capacità empatica”.
Lo spirito partecipativo di Cancian guida e orienta la sua ricerca, approccio ben visibile nelle fotografie che presentano un taglio nitido, più vicino al fotogiornalismo americano e alla concerned photography, che non alle coeve ricerche etnografiche che Ernesto de Martino, contestualmente e a pochi chilometri di distanza stava svolgendo ad Albano di Lucania.
Non è la dimensione magica e folkloristica a interessare Cancian. I riti festivi non sono testimoni di una civiltà arcaica, anzi, a emergere è una società stratifica e multiforme, di cui l’antropologo vuole comprendere le peculiarità economiche e sociali; il carattere dei suoi abitanti, i giochi, la devozione e la conformazione geo-fisica del paese.
Per rispettare tale molteplicità di interessi, la mostra è stata pensata come una serie di capitoli: il paese, le soglie, la scuola, le campagne, le feste, la gente e la piazza. Singoli brani visivi che se letti nella loro integrità vanno a comporre un racconto complesso sulla vita comunitaria di un paese del Sud d’Italia durante la seconda metà del Novecento.
Una mostra comporta sempre l’inclusione o l’esclusione di alcuni elementi facenti parte del corpus e, in questo caso, dei 1801 fotogrammi del MAVI – Museo Antropologico visivo di Lacedonia – qui conservati in seguito alla donazione fatta da Cancian nel 2017 – sono state selezionate 165 fotografie, di cui 105 stampate su carta baritata di grande formato.
Frank Cancian. Un paese del Mezzogiorno italiano, Lacedonia – 1957 è un percorso critico che delinea con attenzione non solo l’apporto teorico e metodologico di un importantissimo antropologo come Cancian, ma stimola una serie di riflessioni in merito all’antropologia visuale e alla storia socio-politica che ha segnato l’Italia in anni politicamente delicati e spesso poco indagati. Complessità delineate da Faeta all’interno del catalogo, un volume prezioso, perché frutto di un inteso confronto dialettico avvenuto nei mesi precedenti l’inaugurazione tra il curatore e l’autore, che purtroppo è venuto a mancare pochi giorni dopo l’apertura della mostra stessa, il 24 novembre 2020.
“I miei genitori sapevano che ogni persona che ride e lotta in vario modo è, prima di ogni altra cosa, un essere umano […] dopo il college, a ventidue anni, sono arrivato a Lacedonia. La mia esperienza lì mi ha portato a divenire antropologo, studioso di piccole comunità agricole in ogni parte del mondo. Ciò che i miei genitori mi hanno insegnato si è dimostrato vero”.
Parole genuine queste pronunciate da Frank Cancian, che tradiscono l’umanità e il rispetto che lui ha riservato alle popolazioni incontrate, stessi sentimenti che oggi ci guidano nella lettura della sua ricerca visiva e antropologica.
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Calabrese dal cognome un po’ strano. Pensa che aveva ragione quel gran furbacchione di Henry Miller quando diceva “il cancro del tempo ci divora” e prima che il tempo la divori, ogni giorno lei si alza dal letto e si ricorda che vivere non è scontato.
Laureata in storia dell’arte e specializzata in storia della fotografia; lavora come scrittrice, storica dell’arte e curatrice in diversi contesti privati e pubblici.
Appassionata di archivi, tecnologia e cinema, ha seguito interessanti corsi di formazione sull’audiovisivo e sulla gestione d’archivio alla Cineteca di Bologna; così come corsi di scrittura presso la Scuola Holden di Torino. Collabora da molti anni con riviste del settore per raccontare ciò che la colpisce e ciò che non le piace.
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