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Ernst Jünger – Sulla fotografia della violenza

di Pino Bertelli

La violenza, che il diritto attuale cerca di togliere al singolo in tutti i campi della prassi, insorge davvero minacciosa, e suscita, pur nella sua sconfitta, la simpatia della folla contro il diritto”.

Walter Benjamin

1. Sull’estetica della violenza

Sull’estetica della violenza, non solo fotografica. L’umanità si vergognerà a guardare la propria storia, quando vedrà le cose come sono e come certi fotografi l’hanno raccontata. L’idiozia che caratterizza tutti i momenti culminanti della civiltà dello spettacolo è una formula di salvezza. Nessun evento merita di essere consacrato o abbellito, e ogni forma di violenza è necessariamente esecrabile. La vera grandezza della fotografia consiste in quell’etica della poesia o del morso alla gola, di difficile pratica, di vincere, superare o bruciare la sacralità del ridicolo. La megalomania dei fotografi ammessi nei templi della consolazione, non ha rivali. Ogni ideale è alimentato dal successo e ogni follia risciacquata nell’acquasantiera dove sputano tutti, perfino chi fa professione di avanguardia. “Le verità cominciano da un conflitto con la polizia e finiscono col farsi sostenere da essa… sotto il sole trionfa una primavera di carogne” (E.M. Cioran)1. L’odio non ha itinerari. Solo promesse di redenzione e castità. Coloro che sono stati consacrati artisti del luogo comune sono peggiori degli ingenui banditi di strada che hanno osato assaltare il cuore dello Stato, e sono morti dimenticati o finiti in galera a giocare a carte con i loro aguzzini. All’infuori della distruzione di un’estetica della violenza spettacolarizzata, dissimulata sotto il nome di Creazione, Progresso o Futuro… tutte le iniziative non hanno nessun valore. Non riconciliati, o solo violenza aiuta dove violenza regna 2.

Nella società dei simulacri l’immagine è l’oggetto di consumo. Il linguaggio delle merci permea ogni forma di comunicazione e non c’è arte che non sia prostituita alla spregevolezza dell’obbedienza muta o all’estetica della violenza come filosofia dell’obbedienza. Il fatto è che “il trionfalismo del simulacro è inseparabile dalla esperienza del vuoto… Il simulacro è un’immagine priva di prototipo, l’immagine di qualcosa che non esiste… la simulazione è l’irruzione di una potenza incompatibile con l’identità personale… Il simulacro non è un’immagine pittorica, che riproduce un prototipo esterno, ma un’immagine effettiva che dissolve l’originale” (Mario Perniola) 3. Il giornalismo, la pubblicità, la propaganda politica, i mass-media… costituiscono il rizoma relazionale del pensiero decorativo e uccidono il vero in favore della ragione di Stato.

L’estetica della violenza è spesso una messinscena a beneficio non solo della macchina fotografica ma di tutta quella ramificazione del consenso che è destinata ai cannibali del sensazionalismo o dell’autoritarismo matricolato come “diritto all’informazione”.

1. E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, Adelphi, Milano 1996

2. Titolo del film di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Non riconciliati o Solo violenza aiuta dove violenza regna (1964-65), tratto dal testo Billard um Halbzehn di Heinrich Boll. 

3 Mario Perniola, La società dei simulacri, Cappelli, Bologna 1980

Le fotografie di Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau, scattate da testimoni anonimi o da fotografi militari subito dopo la liberazione dei campi di sterminio (che sono molto meno “curate” delle fotografie di Margaret Bourke-White o di Lee Miller)… quelle fatte da Yosuke Yamahata nei giorni successivi alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki… o tutte le immagini di guerra di Robert “Bob” Capa… sono lì a testimoniare che la violenza della guerra è infame e va abolita, e i suoi sostenitori banditi da ogni carica pubblica. Capa, nella Londra bombardata dai nazisti nel 1941, mentre si radeva tenne un dialogo con se stesso, “sull’incompatibilità tra l’essere reporter e avere al tempo stesso un animo sensibile [e ancora]… Dio creò il mondo in sei giorni e il settimo dovette farsi passare la sbornia4. La sua fotografia, leggermente fuori fuoco, ha mostrato ovunque che i disastri della guerra si devono chiamare crimini. Anche se le troupe televisive hanno preso il posto dei fotoreporter e il loro prodotto è subito smerciabile in diretta, la messe di fotografie sulla violenza della guerra, sulle cronache nere metropolitane o familiari… è un vettore importante per il consumo dell’indecenza dissimulata dai mass-media e niente più dell’iconografia della violenza identifica il nesso — non solo interpretativo ma esecutivo — tra macchina fotografica e arma da fuoco.

Ernst Jünger 5 ha compreso, come pochi, e in tempi non sospetti, che la fotografia di guerra, il lavoro e l’anomia delle masse sono la tessitura ideale per l’instaurazione di una politica globale della tecnica e del progresso fantasmati come “fulgido” avvenire delle democrazie rappresentative, quanto dei regimi fascisti o comunisti. A vedere e leggere Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo (1933) 6, che è uno dei volumi fotografici curati da Jünger tra il 1930 e il 1933 7, si riconosce l’attenzione che il “grande contemplatore” ha verso le immagini fotografiche, e le parole disseminate nelle didascalie sono pietre. Qui è annunciata, con la grazia, l’acutezza e l’ironia critica che gli sono propri, non solo la mutazione dell’umanità verso quella pianificazione del gusto, delle passioni e dei sentimenti che le società omologate del XXI secolo esprimono… c’è anche il richiamo all’utopia o a quell’estetica della bellezza che attraversa la sua opera filosofica intera e si trascolora in etica del comportamento.

4 Robert Capa, Leggermente fuori fuoco, Contrasto, 2004
5 Questo scritto è parte del nostro intervento (non letto) al Convegno — Estetica della violenza. Immagini di terrore quotidiano — , Milano 22 settembre 2007
6 Ernst Jünger, Edmund Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo (1933), a cura di Maurizio Guerri, Mimesis-Metis, Milano 2007
7 Ernst Jünger, Luftfahrt ist Not! (L’aviazione è necessaria, 1930), Das Antlitz des Weltkrieges. Fronterlebnisse deutscher Soldaten (Il volto della guerra mondiale. Esperienze di guerra dei no- stri avversari, 1930), Hier spricht der Feind. Kriegserlebnisse unserer Gegner (Qui parla il nemico. Esperienze di guerra dei nostri avversari, 1931), Der gefährliche Augenblick. Eine Sammlung von Bildern und Berichten (L’attimo pericoloso. Una raccolta di immagini e resoconti, 1931), Die verändetre Welt Bilderfibel unserer Zeit (Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, 1933).

La bellezza del Singolo che dice la mia parola è no! a tutte le forme di dominio. Il Singolo come portatore di dissidi e di passaggi impervi verso non-luoghi della verità, dove il meraviglioso è nell’immaginazione e la libertà è dappertutto. È la bellezza dell’Anarca che fa del sognatore solitario un testimone del proprio tempo, un passatore di confine che sveste gli oracoli di patria, libertà, umanità dei loro paramenti e accusa i loro sostenitori di essere responsabili di stermini incalcolabili. “Il prodigio supera la rappresentazione… L’istante più del secolo, è prossimo all’eternità… Osservare le cose secondo la loro collocazione nello spazio necessario significa esercitare con mirabile tecnica l’arte del tiro a segno” (Ernst Jünger) 8. Uomini tristi si sono impadroniti del dominio, hanno brutturato il mondo e lo hanno riempito di musei e cippi alla Patria. Ogni essere umano è testimone del proprio coraggio o della propria vigliaccheria. I coraggiosi rifiutano la guerra. I vigliacchi la plaudono. Lo sguardo si fa libero quando rigettiamo la dimora, il rango e il valore di ogni potere.

Il mondo mutato non è solo un libro illustrato che rievoca attraverso la storiografia fotografica, le situazioni di conflitto o di genuflessione dell’uomo agli idoli, alla scienza, alla tecnica… non è nemmeno una raccolta di fotografie accostate per analogia e appoggiate a didascalie finemente ironiche e fortemente disincantate… il sillabario per immagini di Jünger (e Edmund Schultz) è un libro-metafora che impiega la fotografia come strumento politico e détourna, riorienta, rimanda ad altre letture di immagini saccheggiate dagli archivi. “Occorre appena dire che — scrive Jünger nella introduzione —, grazie all’uso della fotografia, andrà infranta tutta una serie di limitazioni che, altrimenti, ostacolano la possibilità di capire. Così non avrà tanto importanza quale sia la lingua parlata dall’osservatore, e nemmeno se egli sia in grado di leggere o di scrivere.

8 Ernst Jünger, Il grande contemplatore, a cura di Henri Plard, Guanda, Milano 2000

Tanto meno si porranno delle limitazioni all’effetto delle immagini ricorrendo a particolari visioni del mondo, e nella stessa misura in cui i giornali si distinguono nettamente per i loro articoli di fondo, i feuilleton, e perfino per i loro reportage, altrettanto essi appariranno uniformi rispetto alla loro parte illustrata. Ne consegue che anche una sola e identica immagine può essere utilizzata secondo orientamenti esattamente opposti, ad esempio quando, esibendo la fotografia di una macchina da guerra, cerchi di esprimere efficacemente un senso chi è favorevole agli armamenti e chi vi è contrario. Il dato di fatto che si cela dietro questi interessanti fenomeni è che la tecnica possiede il senso di un mezzo esistenziale in confronto al quale la differenza delle opinioni non ha che un ruolo subordinato. Ciò vale anche per la fotografia in quanto speciale documento appartenente a uno spazio tecnico… Come in ogni fonte, così nella fotografia fluisce quella singolare corrente che viene dal tempo e a proposito della quale proprio coloro che la vivono sono meno di chiunque altro in grado di farsene un giudizio. Pertanto solo un animo ingenuo può essere dell’idea che qui le cose siano rispecchiate ‘così come sono’ ”9. Tutto vero. Jünger ha compreso che la fotografia non ha un carattere “oggettivo”, perché soltanto nell’atto di inquadrare si compie una valutazione, si opera una scelta — e non importa quanto consapevole — che de- termina il rapporto del fotografo col mondo e con il proprio sistema spirituale. Il sillabario di Jünger si oppone alla società dei controlli, alle operazioni di polizia internazionale, alla genealogia del terrore che opprime la vita dei singoli e dei popoli. “La mobilitazione totale, ovvero il fenomeno che caratterizza l’esplosione bellica tra gli Stati nella Prima Guerra mondiale, per Jünger è essenzialmente questo: un processo di fusione di guerra e lavoro che non dà come risultato la semplice somma delle due attività, ma segna una svolta epocale, una ‘mutazione’ genetica della storia, un nuovo scenario spazio-temporale fatto di normalità violenta in guerra e di violenza normalizzata in pace. Questo è il mondo mutato di cui Jünger cerca di raccogliere le immagini” (Maurizio Guerri) 10.

L’educazione globale allo sguardo fotografico, ma questo vale per ogni strumento del comunicare, è una rappresentazione del dolore ritualizzata nel quotidiano. La civiltà dello spettacolo ha anestetizzato non solo la violenza, la miseria, il crimine istituzionalizzato… ha imposto un modo di pensare dove l’occhio coglie solo ciò che emerge, banalizzato. Il détournement di ogni forma di comunicazione è il terreno ideale su cui opera la sovversione non sospetta.

Il mondo mutato è un atlante della vita contemporanea… e anche una sorta di breviario iconografico che indica strade diverse del linguaggio fotografico. Jünger ricorda che la fotografia può essere un — “atto di aggressione [o] un’arma offensiva applicata in politica… [come la] prassi di usare le fotografie dei militanti assassinati nella lotta politica trasformandole in manifesti” —. C’è anche altro nella scrittura fotografica. Certo. Nessuna fotografia è innocente. La fotografia è la poetica dell’inconsueto ma anche dell’ordinario. L’una interroga e rompe il banale nell’inedito, l’altra seduce e prolunga la morte della fantasia.

9 Ernst Jünger, Edmund Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tem- po, a cura di Maurizio Guerri, Mimesis, Milano 2007
10 Ernst Jünger, Edmund Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, a cura di Maurizio Guerri, op. cit.

2. Sull’estetica della bellezza

Ernst Jünger si chiama fuori dalla fotografia come archeologia dei sentimenti e delegittima la creazione dell’immaginario nell’assolutismo dell’uguaglianza. La sua visione della fotografia caratterizza il divenire della società massmediatica a venire, e coglie in profondità anche il valore d’uso democratico dell’immagine. La decostruzione del linguaggio fotografico dominante è Una rivendicazione pratica e politica che rifiuta la funzione salvifica del dolore, in questo senso la fotografia è un’immagine del magico che rigetta le categorie fotografiche per situarsi in un pensiero postorico che riflette una critica radicale del funzionalismo, sotto tutti i suoi aspetti antropologici, scientifici, politici ed estetici 11. Sotto il manto dell’obiettività storica, scientifica, culturale, ideologica o dei saperi, si nascondono le forche del giudizio. Nei corridoi gelidi del potere si parla la lingua dell’assenza, del distacco, dell’ingerenza, ma i possessori dell’unica verità non hanno scampo: l’utopia della vita buona autorizza tutte le insorgenze e tutte le varianti. Si tratta di ritrovare l’aristocrazia anarchica del Singolo e recuperare quell’antica innocenza selvatica o dionisiaca che faceva dell’immaginario liberato la scienza esatta delle soluzioni possibili.

11 Vilém Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, Milano 2006. La visione filosofica di Flusser, in qualche modo si collega o è la naturale emanazione dell’etica fotografi- ca espressa da Jünger: “…anche le fotografie debbano essere decifrate come espressione degli interessi nascosti di coloro che detengono il potere: gli interessi degli azionisti della Kodak, dei proprietari delle agenzie pubblicitarie, dei burattinai dietro il parco industrie americano [o giapponese, o tedesco, fa lo stesso], proprio così, gli interessi dell’intero complesso ideologico, militare e industriale americano. Una volta messi a nudo questi interessi, potremmo considerare decifrata ogni singola foto e l’intero universo fotografico”.

Nel sillabario di Jünger, le tematiche della seconda guerra mondiale, dei campi di sterminio nazisti, dell’ordine mondiale del neocolonialismo del libero mercato all’epoca della civiltà dello spettacolo… sono già esplicitati i contenitori di avidità, concupiscenze, formulari del controllo oppressivo. L’idea del potere onnivoro è già situato nell’inconscio collettivo. Per intercessione della merce, delle bombe, del crimine istituzionalizzato… il mondo delle idee muore. La tirannia dell’ideologia mercantile è multiculturale, multietnica, trasversale ad ogni cosa che non sia il profitto. Al management della produzione non serve né il consenso né il dissidio. Gli uomini sono vissuti dai poteri che determinano la loro vita e che nemmeno riescono a comprendere. A un certo grado di accumulazione delle ricchezze, la sola cosa che conta è come liberarsi delle montagne di morti, di scorie, di pezzenti… che infestano la terra.

L’estetica della violenza non è solo quella raffigurata negli orrori delle guerre o nei resoconti delle catastrofi ambientali… sovente investe anche i ritratti celebrativi di presidenti della repubblica, scrittori vezzeggiati o puttane d’alto bordo… le “fototessere” dei milioni di cambogiani ammazzati dai Khmer rossi di Pol Pot, apparsi nel mensile francese “Reportage” nell’aprile 1995, che nella loro tragicità figurano momenti di grande e impietosa fotografia… i fotoritratti dei guerriglieri Taliban, armati fino ai denti e con i volti un po’ tronfi e anche un po’ stupidi, recuperati dal reporter Thomas Dworzak (dell’agenzia Magnum) e pubblicati in “The New Yorker” nel gennaio 2002… o i ritratti posati dei “fieri” americani realizzati dallo svedese Jonas Karlson, per commemorare il dolore di una nazione per l’11 settembre e apparsi nella rivista “Vanity Fair” nel novembre del 2001… sono un esempio di estetica della violenza applicata alla fotografia. Un altro taglio sull’estetica della violenza come ideologia della barbarie, ci viene dal libro Viaggio in una guerra, di W.H. Auden e Christopher Isherwood 12. La guerra è quella tra la Cina e il Giappone del 1937. Auden e Isherwood partono nel gennaio del 1938 e restano in Cina sei mesi. Si tratta di un’opera anomala, che intreccia il reportage con poesie e riflessioni di un poeta immortale (Auden) e di uno scrittore di notevole talento (Isherwood). Le fotografie, non professionali, sono di Auden. Il libro non è solo un’invettiva visiva contro l’inutilità della guerra, ma anche e soprattutto una testimonianza sul campo della stupidità di ogni guerra. “La guerra è bombardare un arsenale già sgomberato, mancare il bersaglio e massacrare qualche povera vecchietta. La guerra è giacere in una stalla con una gamba in cancrena. La guerra è bere acqua calda in una baracca e preoccuparsi per la propria moglie. La guerra è un pugno di uomini spaventati e sperduti sulle montagne, che sparano a qualcosa che si muove nel sottobosco. La guerra è aspettare un giorno dopo l’altro senza aver niente da fare; urlare in un telefono fuori uso; andare avanti senza dormire, senza far sesso, senza lavarsi. La guerra è disordinata, inefficiente, oscura e in gran parte affidata al caso” (Christopher Isherwood). Le immagini di Auden sono dirette, imperfette e grandi come i suoi sonetti. C’è pietà in ogni fotografia e c’è amore per i dimenticati d’ogni fronte. Viaggio in una guerra si scaglia contro la crudeltà umana, senza gridare o mostrare cadaveri squartati al sole… è un’opera etica elaborata sul dolore, sull’indigenza, sull’impotenza di quella follia umana che è la guerra, e che ritrova il riscatto e la memoria universale della pace solo nei morti.

Al di là dei valori espressivi, etici o puramente utilitaristici che questi reportage possono più o meno contenere… rientrano in uno schema di lettura che il mezzo fotografico alza a spettacolo della sovranità tecnica e quando la fotografia diventa clemente o scende giù nel visibile d’occasione, un certo scendere giù, si può chiamare terrore o bellezza. Il terrore è il trionfo della dimenticanza. La bellezza è il taglio della poesia. All’estetica del terrore appartengono tutti quelli che fotografano il dolore degli altri senza comprenderlo. L’estetica della bellezza è al fondo dello sguardo di coloro che con la fotografia riescono a significare le verità imperative del bene.

12 W.H. Auden e Christopher Isherwood, Viaggio in una guerra, Adelphi, Milano 2007

Nell’ambito del reportage le identità sono incerte e nei percorsi del fotogiornalismo l’abuso della ritrattistica occasionale sembra venire avanti… nei settimanali a grande diffusione, anche immagini di notevole presa del reale, come — i Giovani libanesi “sorpresi” in automobile tra le rovine di un quartiere bombardato di Beirut a fare fotografie, in cerca della loro casa distrutta o, per altri critici, sono turisti indigeni che vogliono provare emozioni forti (con la quale Spencer Platt ha vinto il World Press Photo of the Year 2006) —, rientrano nella canalizzazione mediatica che prima di ogni cosa incensa la “notizia”, poi ingoia la fotografia tra discorsi istituzionali con il ritratto del politico, donne nude che passeggiano in abitazioni improbabili o bambini grassi e biondi che chiedono il giocattolo ispirato alla violenza degli eroi dell’ultimo cartone animato giapponese. “La fotografia dei nostri giorni e il fotogiornalismo contemporaneo hanno bisogno di altro. Soprattutto di autori che sappiano riferirsi al proprio linguaggio espressivo. Soprattutto di autori che conoscano il suo lessico esplicito e implicito, e lo sappiano declinare, per raggiungere il cuore e la mente dell’osservatore (le sue capacità irrazionali e relazionali di commuoversi, indignarsi, riflettere) con un percorso che sia onesto e schietto, prima ancora di essere diretto” (Maurizio Rebuzzini) 13. Tutto vero. Le fotografie sono “pezzi di carta” significanti e il significato delle immagini è tutto lì, nella magia che collega il linguaggio fotografico all’uomo e l’uomo al mondo. Non si tratta di essere né fotoproletari né fotocapitalisti, la fotocamera è un utensile e il gesto fotografico serve a formulare un pensiero. Ogni fotografia è il risultato di un’operazione commerciale o di una pena artistica. La democratizzazione della fotografia non c’entra. E nemmeno l’estetica della violenza. C’entra invece la significazione, la fattualità, la disillusione della fotografia come “segno” della storia. Le immagini della sofferenza prese ad ogni latitudine della terra o nel cortile della propria casa, sono al fondo della nostra coscienza critica o si riversano nelle lusinghe o nelle aberrazioni estetiche dei produttori e dei consumatori di violenza sotto forma di spettacolo. La comunicazione è allargata a tutto. Le immagini, i suoni, i giocattoli, i “segni” più insignificanti… rendono il mondo iperfamiliare e ipercelebrato… tutto sembra reale, una registrazione della realtà… ma ogni cosa è diffusa tra spazi commerciali e qualsiasi lettura superficiale del messaggio incatena o porta la fantasia al potere, non per abbatterlo ma per subirlo. L’effetto cumulativo dell’emulazione è avvilente, degrada tutto a ripetizione. Il mondo esiste per diventare un’immagine. A un certo grado di annessione e conservazione mediatica, l’attentato, l’incendio, il crollo e i morti del World Trade Center del XXI secolo, in diretta televisiva… è stato l’evento più spettacolare che l’umanità abbia mai potuto “vivere” dopo l’iconologia (i santini) della crocifissione di Cristo, le cartoline dei campi di sterminio nazisti o l’icona della bomba atomica su Hiroshima mon amour. C’è bellezza nelle rovine, sembra… almeno quanto la tristezza e l’idiozia per quelle canaglie che le hanno provocate.

Il tempo del dicibile è finito, se mai ce n’è stato mai uno. Le cose stanno dietro altre cose. Impossibilitati a dare vita a valori autentici, i politici del pianeta hanno inventato, classificato o eretto a sistema globale… una civiltà aggressiva — e allo stesso tempo museale — che ha insegnato a tenere la libertà dei molti in gran dispregio, a vantaggio del potere di pochi. “Il dominio dei pedanti è sempre soppiantato dalla rivolta dei falliti geniali” (Ernst Jünger)14. Tuttavia, il genio dei popoli non ha eguali e quando si scatena dalla sonnolenza e dalla soggezione millenaria è capace di “miracoli”, come quello di imprimere una direzione obliqua, trasversale o rovesciata al senso della storia.

13 Maurizio Rebuzzini, “FOTOgraphia”, n. 134, settembre 2007

14 Ernst Jünger, Il contemplatore solitario, a cura di Henri Plard, Guanda, Milano 2000

Articolo tratto da:

LA FOTOGRAFIA IN RIVOLTA

Edito Interno4 Edizioni © 2019

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