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Elio Ruffo. Sul Cinema della disperanza (parte settima e ultima)

di Pino Bertelli

La lunga sequenza dell’Onorata Società, tocca la punta più alta dell’affabulazione filmica di Ruffo… primi piani, campi e controcampi, inquadrature fisse che si intersecano a lievi movimenti di macchina, richiamano la forza espressiva della veridicità della stagione Neorealista… i soggetti mafiosi si definiscono in rapporto alla nomenclatura che li autorizza a essere iconerituali di un sottobosco criminale istituito, costruito per accondiscendere all’obbedienza.
Una società dell’entelechia che realizza se stessa secondo le proprie leggi. Una monade concepita in modo autosufficiente e principio gerarchico delle sue azioni interne. La politica, le fedi, le mafie sono i luoghi privilegiati della menzogna… “le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti, non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista” (Hannah Arendt) (41)… nella storia della menzogna di  Sato (42) la mafia ha un posto centrale… poiché l’empietà dei suoi assassinii non porta in sé solo  la menzogna ma anche e soprattutto la codardia… i mafiosi hanno alzato la vigliaccheria sul sagrato della volgarità e la volgarità, come la stupidità, è contagiosa… il bisogno di gloria dei mafiosi deriva da senso di totale insicurezza circa il proprio valore… dalla mancanza di coraggio in se stessi… la grande menzogna dei mafiosi è quella di aver fatto del terrore il mattatoio di tutte le libertà… sia nelle trame mafiose dell’alta finanza o nella dinamite che i mafiosi usano per far saltare in aria i loro nemici, albergano tutti i vaticini dell’intolleranza che prelude all’imbecillità! Per accondiscendere al segreto del delitto mafioso o di Stato, basta scendere il più in basso possibile… diffidare delle persone d’onore… la loro lingua è avvelenata e avvia la verità alla scuola dell’oblio. Solo i cattivi profeti esercitano una grande influenza sui fedenti. a tutto… potere e libertà sono incompatibili… il sorriso sterminatore dei poeti è il solo disinganno che possiamo amare, insomma né padrone né schiavo.

(41) Hannah Arendt, Verità e politica. La conquista dello spazio e la statura dell’uomo, Bollati Boringhieri, 2004 

(42) Jacques Derrida, Storia della menzogna, Castelvecchi, 2014

Una rete piena di sabbia si apre sull’arrivo di una macchina in un paese della Calabria… la voce fuori campo dice: “Mi chiamo Ennio dè Roberti, sono un regista cinematografico e talvolta lavoro per la televisione. Sono tornato nella mia terra d’origine con l’intenzione di compiere la mia fatica seguendo le direttive che mi sono state impartite, deciso a disancorarmi dal retaggio di un impegno critico che finora poco ha giovato alla mia giornata fatta di amara protesta”. Su queste parole si vede il regista che cammina nella strade del paese, piazze deserte, il treno che passa, le scritte fasciste ancora sui muri… le immagini sono fortemente documentarie e lo saranno durante tutto il film.
Ennio incontra un vecchio amico pescatore, Bastiano (una delle presenze più belle dell’intero lavoro) e la figlia, Concia (Gabriella Giorgelli, infusa in un’innocente sensualità), fidanzata con Rocco (Ettore Garofolo, pescatore e calciatore dilettante), fratello di Lisa (Myriam Micol, sorprendente recitazione di una svagata ragazza)… il regista va a trovare il baronetto in attesa della promessa sposa, Flavia (Fulvia Franco)… l’avvocato di famiglia presenta la troupe alla baronessa che invita il regista a fare un documentario senza suscitare scandali… la baronessa ricorda il padre Ennio come una mente geniale, estrosa… il regista risponde: “È vero, infatti trent’anni fa venne arrestato dai fascisti”. La macchina da presa di Ruffo mostra il mare, le spiagge, i paesi arroccati sui monti in una fulgida bellezza… l’arrivo di Flavia è filmato con sottile ironia… Ruffo raccorda l’ostentata nobiltà decaduta con la sicurezza sfrontata della nuova borghesia arricchita impersonata da Flavia. Ennio va sulla spiaggia a filmare i pescatori e dice a Rocco — “È tutto difficile Rocco, tutto difficile, in ogni campo, anche in quello intellettuale, è difficile dire qualcosa controcorrente… siete pescatori?… cercate di combattere le vostre condizioni” —. Rocco — “E come, ma che vuol fare qui, qui si può aspettare soltanto la morte”.
Ennio ricorda a Rocco di un reportage (inserito nel film) fatto a Ravenna e finito in una cesta di rifiuti. Inquadrature notturne di una fabbrica, fumi delle ciminiere e serbatoi sulla spiaggia, interviste ai pescatori che vogliono fare una cooperativa per difendersi dalla fame, poiché i benefici dello Stato vanno tutti all’industria. Dopo il fermo immagine sua una lapide di Garibaldi a Ravenna, Ruffo passa a una lapide di Garibaldi in Calabria e sul volto di Rocco… stacco di montaggio, visti dall’alto donne e bambini stracciati attendono la baronessa nel cortile… in cambio del voto elettorale per il baronetto, fa distribuire dal cameriere pacchetti di pasta che ricorda la compravendita dei voti di Achille Lauro a Napoli e della mafia siciliana… un canto di chiesa conferisce alla sequenza un timbro sarcastico sull’immaginario dei vinti e il disgusto verso una pratica feudale mai sconfitta. Ennio e la piccola troupe cercano di intervistare le persone nelle case, nelle strade, nessuno accetta di parlare… Lisa si sveglia e in sottoveste va alla finestra canticchiando Bella ciao, poi esce e invita la troupe in casa… Lisa fa vedere a Ennio un radiolina e dice che l’ha pagata con un certo impiccio… Ennio e l’operatore si avvicinano a un gruppo di lavoratori che emigrano in Germania… arriva Flavia nella sua macchina di grossa cilindrata… Ennio chiede a un operaio perché emigra, l’operaio — “Perché qui non si può più vivere” —. Flavia, senza uscire dalla macchina — “Siamo alle solite, una volta vi accontentavate di una radio in casa ora invece volete il frigorifero, la televisione e magari la fuori serie”. Con uno spostamento di macchina Ruffo accompagna i lavoratori verso la stazione.

Seduto su una barca Bastiano parla ai pescatori — “Tanti sacrifici, tanta fatica comporta il nostro lavoro e poi pescherecci di frodo, monopolio di persone ricche e potenti. E ora addirittura l’intrallazzo della droga. Per noi invece minimi guadagni, l’unica soluzione è una cooperativa” —. Rocco viene scelto a guidare la cooperativa. La macchina da presa si sposta sui pescherecci e verso un uomo con una borsa… i pescatori scaricano il pesce, portano pane e provviste sulle barche per la pesca successiva, un marinaio dà all’uomo con la borsa il pacchetto con la droga che va a consegnare in un hotel a un mafioso. Le panoramiche, zoom, spostamenti di macchina ricuciono l’esilità attoriale e qualche elemento scenografico un po’ gratuito (i cappelletti bianchi dei giovani marinai) sono ricuciti nella visione documentaria che è al fondo della fattografia filmica di Ruffo. Metafore e analogie che esprimono l’affettività estetica delle realtà umane.

I pescatori sono ripresi mentre mangiano in un ambiente scuro e piatti bianchi… la macchina da presa indaga i loro volti… primi piani e pezzi d’insieme sono avvolti in una secchezza visiva accattivante… nella discussione dicono che se il baroncino vuole il voto dei pescatori lo deve
pagare e ciascuno deve mettere da parte le proprie opinioni… nella notte il regista filma un gruppo di pescatori che suonano e cantano sul mare… Concia arriva alla spiaggia in un vestito bianco… Rocco la vuole baciare, Concia scappa nell’atrio di un’abitazione… Ruffo filma una sequenza erotica con grande abilità (sembra abbia incontrato qualche fastidio di censura per la veridicità impressa in questo frammento di film)… i volti di Rocco e Concia sono contrapposti alla mobilità della macchina da presa e i canti dei pescatori grondano sui baci appassionati e i corpi in amore di Concia e Rocco avvinghiati l’uno sull’altra sui gradini delle scale.
L’atmosfera generale di questa stupenda sequenza ricorda, in qualche modo, il film di Bernardo Bertolucci, La comare secca (1962), tratto da un soggetto di Pier Paolo Pasolini, dove Gabriella Giorgelli interpreta una ragazza senza scrupoli con la medesima veridicità dell’innocenza donata di Concia. Non ci sono sventure che possono intralciare l’amore, poiché quando è vero, vince su tutte le difficoltà della gabbia sociale.
Nella casa della baronessa Flavia cerca di sedurre il regista che la respinge… il giorno dopo Flavia porta Ennio a vedere i luoghi più suggestivi del territorio… sono immagini di raccordo, servono a mandare avanti il racconto… permettono al regista di parlare del confino di Cesare Pavese da parte del fascismo, mostrare montagne, cieli, ruderi di un’originaria cultura mai dimenticata… una mescolanza di reale e parola tesi a giustificare la figura di Flavia nella produzione, lasciata a metà strada tra la necessità contrattuale e la disinvestitura del film.
Ancora una notte… Ennio e Lisa vanno sulla spiaggia… Lisa è sfrontata… fanno l’amore su un’altalena… il trattamento filmico non esce dalla commedia sentimentale e s’avverte una certa frettolosità costruttiva. Il pezzo successivo invece è sentito dal regista in modo convincente… il capo mafioso, Don Raffaele, è riunito a tavola con gli “amici”… viene deciso di sabotare i pescatori e nessuno deve comprare il pesce della cooperativa… Ennio acquista il pesce da Rocco e cerca di venderlo nel paese… nessuno si avvicina… un mafioso va da Ennio e gli dice — “Il mercato è cosa nostra, si risparmi il fiato amico, il prezzo lo faccio io o chi per me… si ricordi che suo padre mi ha difeso in corte di assise più volte, le do un consiglio non s’impicci, salutiamo” —. Don Raffaele passa nella piazza… gli uomini alzano i cappelli e salutano servilmente… il regista chiede un’intervista a Don Raffaele che sposta malamente l’operatore e riprende la via. Il pesce non si vende, Rocco va al tavolino di un bar e butta una cassetta di sardine in faccia a due mafiosi. Il racconto filmico è essenziale, scolpito nella realtà calabrese, un’accettazione dello stato di cose che introduce alla conoscenza della rapacità mafiosa.
La baronessa e Don Raffaele s’accordano per confluire i voti della mafia nell’elezione del baroncino a deputato con l’esclusione dei pescatori… ballano un patetico tango e in contrapposizione si vede la rivolta dei pescatori che vorrebbero riscuotere le cambiali del baroncino… Rocco parla col baroncino che rifiuta di mantenere i patti coi pescatori… sulla spiaggia si prende a Botte con Sebastiano e si mette contro tutti… accetta di trasportare la droga per l’uomo col cappello bianco… Concia convince Rocco a non traghettare la droga e si ritrovano in un abbraccio e in un bacio rovente.
Il regista chiede al barbiere d’incontrare un mafioso per un’intervista… il regista — “Come società avete contatti con i vostri affiliati siciliani?” —. Il mafioso — “La stessa razza siamo, per ora comandano loro, sono i più ricchi, poi chissà?” —. Il regista — “Che si decide nelle riunioni del vostro tribunale?” —. Il mafioso — “L’intervista è finita” —. Subito dopo Ruffo fa una lenta panoramica da San Luca sulla fiumara e ferma la zoomata su una casa semi-diroccata… apre forse il momento più significativo del film ed è un pezzo di cinema di eccellente qualità. Una carrellata accompagna due giovani mafiosi tra le macerie della casa… nel buio di una stanza illuminata da una lampadina ci sono alcuni uomini e una donna… si alzano in piedi all’ingresso dei mafiosi e uno dice — “Stati comodi saggi compagni ”… tutti dicono — “Su di che” —. E l’uomo — “Di formare società, parola d’umiltà divina e formata società” —. Tutti insieme — “Siamo agli ordini della società onorata” —. L’uomo — “Bene, accomodatevi. A nome dei nostri vecchi antenati spagnoli Osso, Mastrosso e Calcagnano che per noi hanno sofferto le celle delle oscure carceri penali, dichiaro aperta la seduta del nostro tribunale e riconosco questo luogo sacro e inviolabile”—. La cinecamera di Ruffo entra con vigore nel neroscuro della stanza e come in un film noir americano degli anni ’50 (che ritroviamo in Giungla d’asfalto (1950) di John Huston, Sui Marciapiedi (1950) di Otto Preminger o L’infernale Quinlan (1958) di Orson Welles)… la cornice cinematografica si riempie di verità… lo specchio oscuro dell’esposizione supera i confini temporali e la drammaticità della vicenda assume toni d’impudenza che non lascia spazio alla speranza.
Prima di entrare nel casolare, un mafioso chiede ai giovani cosa vogliono e questi dicono di voler parlare col Capo di società… il mafioso: — “Anime della vecchia antenata vi impongo e vi sequestro l’armatura, spiedo, specchio e l’arma infame depositate al mastro di giornata, eseguite gli ordini” —. Il Capo trino chiede hai giovani: — “Che cosa volete?”—. I giovani dicono che sono stati offesi a morte da un pescatore della marina —“il merdoso ha osato infangare la nostra onorata famiglia”—. Il Capo trino dice che la cosa è grave e apre un giudizio
contro il pescatore che tutti approvano. Nomina un pubblico ministero, un avvocato difensore e raccomanda la massima obiettività ai giurati: — “Si tratta di questo, un pescivendolo della marina ha oltraggiato a morte uno dei nostri, la parola al pubblico ministero” —. Il pubblico ministero: — “Per me, in base alle nostre regole, verrà eliminato” —, e batte un pugno sulla tavole. L’avvocato difensore: —“Onorato e saggio capo, onorati e saggi compagni, chiedo che ci sia clemenza riguardo al pescivendolo perché lui non conosce le nostre regole, per questo chiedo che invece della condanna a morte gli siano scavati tre garofani rossi sul petto” —, e appoggia un coltello sulla tavola. Il Capo trino dà la parola alla sorella d’umiltà: — “Data la mia qualifica di sorella d’umiltà chiedo clemenza” —. Il pubblico ministero: — “Le parole della sorella d’umiltà sono commoventi, ma io confermo il mio parere (batte ancora una volta il pugno sulla tavola), eliminato! —”. Il Capo trino chiede se i giurati sono d’accordo… tutti abbassano il capo in segno di consenso. Il capo trino mette la pistola al centro della tavola: — “Ora devono tornare i conti con un’operazione di legittima difesa” — che rivendica la ragione dei giovani mafiosi.

In questa lunga dissertazione dell’Onorata Società, Ruffo dà prova di una valenza etica/estetica di grande respiro autoriale… il cinema diventa uno strumento di indagine socio-antropologica e attraverso una ritrattistica intersecata con l’ambiente, interviene sulla percezione della realtà. È una lezione di estetica del cinema… legata alla possibilità ontologica per la verità nel cinema… la macchina da presa, anche nella finzione, può portare al ritorno di quella realtà fisica che auspicava Sigfried Kracauer, e cioè che il cinema deve rimanere fedele alla realtà fisica, penetrare «il mondo che abbiamo dinanzi agli occhi» e restituirlo nell’imperfezione della sua verità storica (43). Il fascino delle immagini di Ruffo si dipana su un supplemento della realtà… la partecipazione psichica immersa nell’azione e nei personaggi mafiosi è di una potenza allegorica di rilevante presa del reale, una mescolanza tra reale e immaginario in cui l’immaginario è al servizio della soggezione e del delitto accettato, e il reale è la codificazione di un’Onorata Società basata sul sangue dell’innocenza.

(43) Sigfried Kracauer, Teoria del cinema. La redenzione della realtà fisica, a cura di Leonardo Quaresima, Cue Press, 2022

Il regista filma il paese e la gente di San Luca in trepida festa per la visita del presidente Giuseppe Saragat alla casa di Corrado Alvaro… dice all’operatore che monterà il filmato con il discorso del cinegiornale di Saragat sulla Calabria… sotto la musica di una tromba risorgimentale, una filiera di politici, amministratori, imprenditori s’affastellano davanti alla telecamere in bella luce per la storia. Col consueto manierismo della predica consolatoria, Saragat sembra credere in quello che afferma: — “Tutti sappiamo perché questa regione che venticinque secoli or sono fu una delle glorie della civiltà universale è decaduta a un livello sociale che ancora quindici anni fa era ai confini della miseria e che oggi nonostante i decisivi progressi compiuti è lungi dal livello medio di vita della nazione e addirittura inferiore a quello medio dell’Italia meridionale. Per questo l’impegnò nostro deve intensificarsi, deve far tesoro di ciò che è stato fatto e anche degli errori, inevitabili errori nell’azione d’intervento dei pubblici poteri per procedere innanzi più sicuri e spediti. Ma molto si è fatto ma molto, moltissimo resta d fare per promuovere nelle regioni del nostro mezzogiorno processi autonomi di sviluppo economico e civile” —. È la parabola di San Matteo attualizzata: — “A chiunque ha, sarà dato e sarà nell’abbondanza. Ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha” (Matteo 25, 29) —. Le caratteristiche dei falsi profeti sono quelle di riscuotere l’approvazione unanime… senza una pratica dell’uguaglianza, ogni politica, ogni fede e ogni sapere, non è altro che un buffonata.
Dall’oscurità dell’Onorata Società Ruffo passa alla luce mediterranea della spiaggia… Bastiano non vuole vendere il pesce sottocosto… Rocco si avvicina e chiede le chiavi del camioncino della cooperativa per andare a portare il pesce nei paesi in montagna… Ruffo qui fa un’inquadratura tropica… si vede una croce di legno in primo piano e sullo sfondo il camioncino di Rocco che s’allontana… lo zoom si avvicina lo sguardo alla croce… il camioncino arriva in un paese… Rocco si ferma e va in una tabaccheria… tre giovani mafiosi buttano a terra le cassette del pesce… Rocco grida che stanno rovinando della povera gente, infami, carogne… uno dei mafiosi impugna la pistola e spara a Rocco che muore tra i pesci. Il rimando alla morte di Franco Citti in Accattone (1961) di Pasolini è evidente… l’inquadratura un po’ sghemba e la luce tragica di Tonino Delli Colli, lo ricorda… è una sorta di cristologia rovesciata, il riscatto del singolo contro una religione da pistola… l’eresia che si esprime nel desiderio di libertà e per esaudirla viene recisa nell’indifferenza e negli imperativi del potere mafioso.
Solo i pesci morti vanno con la corrente e la zuppa che i padroni assicurano ai cani è il marchio del sottostare… ogni potere s’impone solo grazie al consenso di coloro sui quali viene
esercitato e come scriveva un giovane filosofo francese del ‘500, Étienne de La Boétie, morto a soli 23 anni: “Siate risoluti a non servire più, ed eccovi liberi” (44). 

 (44) Étienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria”, Chiarelettere, 2020

Le società tiranniche, autoritarie, mafiose… destinano il castigo ai ribelli e agli insubordinati… uccisioni, reclusioni, torture, ricoveri manicomiali, recinzioni degli individui, vessazioni familiari… sono le armi dell’ideologie dominanti… una linea di condotta che Stato, Chiesa, Mafie, Finanza, Politica, Militarismo e scienza asservita producono come scala di valori… una cartografia della spoliazione che induce alla sottomissione interi popoli a un’enarchia (il potere della casta dirigente), completamente separata dalle necessità quotidiane dei cittadini che si arroga il diritto di vita e di morte sulla collettività. Il regista va a casa di Rocco… in una lettera che fa vedere a Bastiano, Lisa scrive che ha lasciato il paese… Concia è in lacrime… il regista: — “Io non credo che finisca tutto qui” —. Bastiano: — “I morti Ennio stanno bene dappertutto, pur che siano vissuti con libera coscienza” —. La macchina da presa di Ruffo riprende le scritte murali fasciste, come all’inizio del film… in un sogno ad occhi aperti vede Rocco che avanza verso la croce di legno sulla spiaggia, ci gira intorno e guarda in camera… il regista sale sul treno, s’affaccia al finestrino e la voce fuori campo dice: — “Forse ti vedo veramente Rocco, vieni a rimproverami qualcosa, e Lisa chissà dov’è a quest’ora” —. Il film si chiude su Lisa che canta davanti a una platea di persone vestite di nero… fotogramma fisso su uno sguardo malizioso di Lisa. FINE

A ritroso. Il cinema della disperanza di Ruffo contiene i semi profondi del pensiero ereticale di Gioacchino da Fiore e l’utopia comunarda di Campanella, come abbiamo già detto… si raffigura in una fraseologia d’immagini e parole che contengono il significato linguistico della lingua dei bisogni… l’immagine produce il significato fuori dal linguaggio corrente e la significazione è quel pensare per figure gioachimita che assume l’essenza del tutto ed è l’alfabeto sacro del popolo calabrese. Basta un istante per ravvedere i canti e i singhiozzi di una terra tradita. Non c’è altra bellezza al di sopra dell’uomo che annienta i formulari della falsità… e l’ultimo canto è quello che riepiloga la vita nella gioia di un’altra esistenza.

La ripetizione, l’insistenza, la determinatezza della filosofia campanelliana, ritornano sui volti/corpi dei calabresi in un altrove che è sempre la medesima deflorazione del tempo abolito… la riscrittura di un destino e la rottura del silenzio iniziale che annuncia l’alba di nuove rotte. L’eruzione dell’insolenza campanelliana abbraccia duemila anni d’esilio della verità sulla Terra… infiora tutto ciò che non vuole essere compreso, ma essere amato… una successione di ferite, varchi, diffrazioni che emettono la sofferenza sovrana di un popolo nel tempo presente… un abbaiare di cani che sfidano silenzi inzuppati di pietà e di rivolta… dove la morte e la vita si srotolano tra le pieghe della parola e sulla soglia d’una scelta estrema dove l’uomo attende la propria fine o la propria insurrezione. Per Campanella il furore non si costruisce, ma si decostruisce… e l’azione riporta sempre alla parola iniziale. Ogni grido di libertà si teme e si cima nella prossimità di un altro grido. Vita e bellezza hanno lo stesso respiro e al termine dei castelli inceneriti, respingono l’edificazione dei trofei issati nel sangue.
La lettura dei documentari/film di Ruffo porta al ritorno apocalittico della purezza originaria che si frappone tra la condizione esistenziale della storia e la resurrezione popolare che straccia gli assunti dell’ordine imposto… alberi, mari, monti, simboli, immagini tracciati dalla storia biblica non sono visti dal regista solo come storia della salvezza, ma anche come segmenti del desiderio che portano a riflettere sull’infanzia di un uomo o di un popolo, e non ci può essere nessuna felicità sociale senza il desiderio di vederla realizzata. Le visioni mistiche di Gioacchino da Fiore nel cinema di Ruffo… immagini, parole, bianco, nero, colori… sono fortemente connessi in una cosmologia politica-civile permeata di mutazioni di senso che rinviano a un sovvertimento sociale non come caos, ma una sorta d’Apocalisse come rivelazione di un novello mondo dal quale possa emergere una genealogia della felicità, della giustizia e mettere fine alla parola proscritta. 

La costruzione filmica di Ruffo è una figurazione-immagine non solo alla portata degli illetterati, analfabeti o colti esegeti delle accademie, è soprattutto una ferita aperta nella psico-sociologia profonda dell’uomo. Il filmare per figure di Ruffo corrisponde alla prospettiva gioachimita che ostenta i suoi rifiuti, a una teorica della concordia che vede uomini, popoli, sovvertimenti storici scaturiti nella fine dell’abiezione… gli umiliati insomma riceveranno la grazia della libertà senza dispensare nessuna misericordia che non sia la perdita della superbia: «Un’umile servitù è migliore di una superba libertà, migliore […] di una tronfia, non di una prostrata dinanzi al potente» (Giacchino da Fiore, da qualche parte). Stare insomma a fianco degli umili significa condannare i superbi allo loro insignificanza. La concezione profetica apocalittica di Gioacchino da fiore prevedeva il superamento dell’avvento teologico del Padre, del Figlio e nella evoluzione storica del Terzo Regno, quello dello Spirito, preconizzava la visione di un’utopia realizzata.
La figurazione è quella del serpente che affonda su se stesso, discende negli abissi e porterà all’Apocalisse. L’uomo in utopia è più l’uomo che non parla e agisce per aprirsi alla profezia —  “ma questo uomo che dovrebbe bastare a se stesso, quasi incarnando la quarta essenza della Trinità, diviene un involucro vuoto nell’attesa che non si realizza. Paradossalmente, il conforto che doveva scaturire dalla certezza dell’avvento dello Spirito, diviene la tragedia del nulla che non accade, e dell’uomo che invece di bastarsi, si scarnifica di emotivo, fino alla resa […] 
Tutto ciò che è stato tende a un punto, tutto ciò che siamo tende a un punto. L’utopia che ha eliminato la trascendenza divenendo slancio verso un futuro che non si riesce mai a cogliere, potrebbe realizzarsi in una tensione interiore, una verticalizzazione che scopre il futuro oltre l’abisso del vuoto che corona ogni ragione ” —. Il Regno della libertà assoluta, della possibilità, della speranza e attraverso tutte le profezie rivelate e nell’accadimento dell’impossibile realizzato si fa eternamente vero (46).

Siamo coscienti che la nostra lettura ereticale del filosofo calabrese, comparata o immessa nel cinema della disperanza di Ruffo, può apparire come una forzatura libertaria… ma siamo altrettanto coscienti che per raggiungere il Terzo Regno, quello dello Spirito, auspicato da Gioacchino da Fiore o la società comunarda di Campanella, che vediamo disseminati nella filmografia di Ruffo, è necessaria un’Apocalisse… e non sono certo gli imperi, le dittature, le ideologie, le chiese, i governi, le mafie, i saperi a possederne la grazia, la bellezza, la giustizia, poiché il vero atto politico non è distruggere ma ricostruire.

Dobbiamo dire che ne facciamo volentieri a meno di acuti maestri dello spirito come Vito Mancuso… la sua dotta via della bellezza , forbita di centinaia di citazioni colte, nulla aggiunge e nulla toglie ai lavacri di bellezza e di giustizia di Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella, semmai ne alimenta la contemplazione cristologica fino a innalzare i credenti a santi… la bellezza, come l’amore, non si concede, ci si prende… la via della salvezza non sta né in dio né nel diavolo… “seguire il comandamento evangelico di amare i nemici”, dice Mancuso, significa mettere la bellezza sotto la garrotta della barbarie e perpetuare l’alterigia di pochi sulla servitù dei molti (47).  “La bellezza salverà il mondo”, Dostoevskij, diceva, certo… ma dopo che la rivoluzione popolare ha azzerato tutte le forme di sfruttamento, oppressione e violenza dello Stato.

 (46) Francesca Ricchi, https://www.pangea.news/terzo regno 

(47) Vito Mancuso, La via della bellezza, Corriere della Sera, 2022

 

Per chiudere come anche per aprire… il cinema della disperanza di Ruffo è un atanòr (o forno) del pensiero libertario che porta a guardare le sfaccettature profonde dell’essere umano… le essenze archetipiche che ne hanno tracciato la storia… Ruffo usa le immagini, i gesti, i corpi, i mari, le montagne, i cieli… e attraverso una visione metaforica costruisce un cinema di trasfigurazione dei luoghi comuni… i film-crogiolo che architetta rompono la “bella parvenza” dell’eterno ritorno all’uguale… sono vocaboli di sangue che oltrepassano gli uomini e le cose che li circondano e indicano la ferita originaria dell’inizio, la purezza del gesto, secoli di macellazioni e di defezioni sversati su una popolazione impaurita, violata e al contempo fiera delle proprie tradizioni… gente indorata al sole dei millenni e strozzata nella parola estinta, sempre prona alla doppiezza del potere… che parla la lingua dei filosofi, dei poeti, di cantastorie affogati nei pozzi del sapere, perché l’ordine delle rovine continui a regnare.
L’immaginale filmico di Ruffo riprende l’effigie dell’umiliazione e il monopolio delle lacrime e ne fa grida di riscatto e resurrezione… ogni film contiene la coscienza della verità che fa male vedere, ascoltare, sognare… sono frammenti di un’iconologia dell’ingiustizia straziata
che dissemina sullo schermo e nella vita, la bellezza che verrà e avrà il tuo volto, quello di ciascuno che profuma di giustizia, di libertà e del bene comune. Il cinema per figure di Ruffo sollecita e separa, delimita e dispiega, disarciona e commuove… consente di vedere, sperare, giudicare in funzione della realtà a venire e si sottrae all’indecenza di vivere in questo modo e a questo prezzo. Il fuoco nei camini calabresi non si è mai spento… le ombre e le luci dei sorrisi arrotati sulle pietre di fiumara non hanno mai preso congedo dalla loro lacrime… la bellezza che canta la libertà dell’uomo per l’uomo è un’arte di vivere, la più aristocratica… solo chi salva un granello di sabbia o una rosa di campo o un bambino saltato su una mina anti-uomo, può diventare una stella.
Sotto un certo manto di critica radicale della civiltà dello spettacolo… il cinema del dissidio di ogni dove è teso a declassificare il processo storico… a ribadire che l’uomo nasce e muore nel contesto sociale in cui è stato allevato e indirizzato all’acquiescenza o alla deprivazione della soggettività… “l’identità sociale si definisce e si afferma nella differenza” (Pierre Bourdieu) , e poiché il capitale culturale può mutare le sue forme, mai la sua natura saprofita, occorre richiamare la classe dei dominati all’urgenza di smantellare la frazione della classe dominante che determina l’organigramma dei consumi di una società (48). 
La democrazia non è altro che una parola che usano i vigliacchi, escogitata sin dall’inizio per tenere in soggezione i questuanti delle elezioni… il vento della conoscenza o del pensiero libertario porta in sé la capacità di distinguere il giusto dall’ingiusto, il bello dal brutto, il buono dal cattivo… è un uragano che spazza via tutte le tavole comandamentali del convenzionalismo… non aspira a insegnare nessuna dottrina o ideologia o tirannia della maggioranza, che non sia la fine dell’ottusità… la soppressione dei partiti politici (anche camuffati da liste civiche) è una necessità, “il popolo dovrebbe essere chiamato a esprimere il proprio volere riguardo ai problemi della vita pubblica, e non solamente a operare a una scelta di perso ne” (Simone Weil) . Il controllo dei popoli è un’arte nemmeno raffinata… i governanti sono un sistema economico-politico corporativo ed esercitano un immenso controllo sulle finanze nazionali e internazionali attraverso il consenso dei governati che s’identificano con le ragioni più dispotiche… l’egemonia e l’elitario della civiltà dello spettacolo e la distribuzione generale del benessere, imprime un’enorme forbice delle disuguaglianze e non è importante che tutti abbiano lo stesso, ma che ciascuno abbia abbastanza perché tutto resti come è (49).  Una dottrina della sufficienza insomma che dice: crepata di fame, sotto le guerre o nell’inedia, purché trionfi la Dio, la Patria e il Padrone. Si tratta di disfare ciò che è stato fatto, abbattere le strutture gerarchiche, autoritarie che dominano tutti gli aspetti della vita e dar luogo a un inizio dove la crescita dell’uguaglianza è il primo passo verso il funzionamento di un’economia più libera e più giusta. L’obbiettivo della rivoluzione libertaria è quello di finirla con l’organizzazione economica-politica dello Stato… né parassitismi né privilegi… la libertà non è un regalo ma una conquista… e solo associazioni libere di produttori liberi possono fondare una democrazia partecipativa o una società in anarchia… ancora — “Quanta più concentrazione di potere e di autorità, tanta più ribellione e maggiore impegno per organizzarsi fino a distruggerla. Prima o poi questa lotta sarà coronata dal successo. Io lo spero” (Noam Chomsky) —, e io ci credo. Costi quel che costi e senza rimpianto, né dio né padrone, sempre (50).   

                                                                                                                          Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 19 volte marzo 2024 


(48) Pierre Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, 2001

(49) Simone Weil, Manifesto per la soppressione dei partito politici, Castelvecchi, 2008

(50) Noam Chomsky, Anarchia e libertà. Scritti e interviste, Datanews, 2003

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