L’universo fotografico imperante è un flusso d’immagini che caratterizzano un sommario di decomposizione della fotografia come strumento di verità senza inganni… le fotografie sono frammenti significanti di un’immaginazione che decodifica o inneggia il rapporto tra uomo e mondo… decifrare le immagini vuol dire scavare in ciò che significano e l’impronta della fotografia o è il patibolo della merce o è il grimaldello che la smaschera e, qualche volta, la distrugge. La fotocamera è un giocattolo, un utensile, un ordigno e la sola morale che conosce è quella del servo o del ribelle! Le fotografie sono contenitori di magie e misteri che celebrano la banalità dell’industria o lavorano alla sua caduta… per quanto prossimi al paradiso della fotografia fatta da tutti e per tutti, ci viene in soccorso l’ironia e fuori dalla compiacenza e dal successo si trovano quelli che hanno compreso la fotografia come un brulotto che attenta all’unica realtà che esista, quella dell’ignoranza, dell’imbecillità e dell’analfabetismo che sostengono le magnificenze di una società dell’intolleranza, della brutalità e del consumerismo… la verità e la bellezza attraversano lo specchio di Alice e si lasciano stupire da nuove fioriture di esistenze liberate. La fotografia è morta di fotografia! Ma bisogna uccidere la morale dei princìpi nella quale si ritrova ancora il ricordo dell’onnipotenza. In questo sta il suo rinascimento.

La masseria delle fotografie di Steichen sono riconducibili, come abbiamo detto, ai boudoir dell’iconografia d’intrattenimento… qui gli esercizi di ammirazione si sprecano… immagini di improbabili fantasmi in giardino, dive pensose, velate, accasciate su divani e poltrone lucenti… ballerini che volano come libellule, modelle di bianco o nero vestite, autoritratti, pubblicità, architetture, Charlie Chaplin senza Charlot… c’è perfino Churchill in posa per la storia a venire… tutta una casistica visuale abilmente confezionata che fa di Steichen un divo riconosciuto della fotografia insegnata… a ben vedere c’è anche altro nelle immagini di Steichen… di là dall’uso sapiente della luce e dell’innata abilità di traffico con la fotocamera di grande formato… l’insieme del suo lavoro è corso da un estetismo smarrito, qualcosa che ha a che fare con la mancanza di equità, di misura e, talvolta, di sublimazione, come si avverte nelle immagini di Thérese Duncan, Martha Graham o Rodin — “The Thinker”… tutta roba da collezionismo raffinato, certo… senza comunque un minimo d’impertinenza verso l’epoca dei dizionari… dove il giudizio dottrinario o mercantile, riproduce l’illusione.
L’immaginale fotografico di Steichen è un’apologia del bello che non tormenta, non turba, nemmeno seduce — come invece è l’opera di E. Joseph Bellocq, Robert Mapplethorpe, Oliviero Toscani o Gian Paolo Barbieri, tanto per restare in certe altezze creative -… qui si canta la bellezza come manifestazione del bene, del bello, del vero, in Steichen si eleva la definizione a genere e il senso d’onnipotenza che ne consegue manifesta finalità estetiche/mercantili soltanto… più di un secolo di fotografia (facciamo finta che sia nata sul finire dell’Ottocento) non ha ancora permesso a industriali, storici, critici, galleristi, fotografi… di discernere tra etica ed estetica senza cadere negli scempi della crocifissione o nell’apologia della frenesia… si concedono statuti di maestri o palafrenieri dell’ottimismo (anche “rivoluzionario”) a quanti fanno cassa — Steve McCurry, Andres Serrano, Annie Leibovitz o Nan Goldin — ad esempio… e si elargiscono premi altisonanti ai profittatori del terribile (fotoreporter del gioco al massacro o inseguitori della brutalità dei premi, sempre truccati da industrie e agenzie) che associano la perfettibilità del mercato all’evento di cannibalismi, mai smentiti, semmai giustificati nei genocidi delle disuguaglianze.
Le luci, le ombre, le posture delle fotografie di Steichen… figurano un gusto che si accorda con la bellezza formale di una generazione che guarda le stelle senza avere i piedi nel fango… l’eleganza, il sentimentalismo, le sensazioni raffinate delle sue immagini, s’accompagnano al piacere di una simmetria, proporzione, figuralismo uniti in una sola medesima cosa, l’eccesso di nascondimento della verità come bellezza… non c’è una fenomenologia della riflessione che porta il bello come manifestazione del vero, del bene e del giusto… senza scomodare gli antichi… vogliamo ricordare che bellezza e verità sono la medesima cosa e il pensiero del bello è in se stesso infinito e libero. Dunque, la filosofia fotografica di Steichen è un sudario della benevolenza e si esaurisce nella propria inconsistenza, come si esaurisce l’inventario immaginifico che la contiene. Certo… la fascinazione della fattografia visuale di Steichen non si può azzerare con arguzie, invettive e bagatelle… nemmeno con le grandi collere… tantomeno con il gusto del partito preso… le fotografie di Steichen restano incantesimi di corpi illuminati nello spettacolare integrato… donne, uomini, nature morte di prolungamenti letterari di un certo effetto, memorie condizionate da una poesia senza sostanza con la quale gente come Benjamin Péret ci accenderebbe il fuoco su qualche barricata… lo stile senza arte è una prerogativa degli artisti di corte e senza un filo di grazia frana nell’ostentazione della propria casta. Non è un caso se tutti, anche i più ribelli (recuperati), finiscono nei francobolli o nel verminaio dei miti dell’industria culturale.

Steichen non era uno sciocco… quando assume la direzione del dipartimento fotografico del MoMA (Museum of Modern Art) di New York, come abbiamo detto, cura esposizioni di grande pregio, diceva che la «Missione della fotografia è spiegare l’Uomo all’Uomo, e ogni Uomo a se stesso»… e il suo lascito culturale come organizzatore di eventi ha aperto strade eccellenti all’immaginario fotografico, ciò non significa che molte delle sue scelte, sia la sua produzione fotografica, siano consacrati all’arbitrario e alla disinvoltura… detto meglio… la nobilitazione dell’arte nelle caserme del potere è sempre sospetta… e non tutti ebbero l’orgoglio libertario di Goya, sapevano usare il coltello come Caravaggio o capire il mondo dei citrulli come Van Gogh… per denunciare i disastri della guerra, effigiare madonne con puttane o raffigurare raccoglitori di patate come persone bastonate nella loro più intima dignità… se poi i parassiti dei musei li hanno appiccicati sulle pareti o infilati nei cavò delle banche o cattedrali, questo non c’entra nulla con l’arte… una volta diventata sovrana, l’arte si erge contro tutti i valori estranei al suo disdoro e non offre nessuna speranza di sfruttamento reale alla quale ci si possa appigliare.
La scrittura fotografica di Steichen, sotto ogni taglio espressivo, è più falsa della gloria dei Vangeli… una visione sacerdotale di epifanie fattuali dispiegate nel dileguamento o nell’ebbrezza di un tempo dove i forzati della miseria, al pari di oggi, venivano rinchiusi nei luoghi comuni e in supplementi di autorità gli artisti, i politici, i preti, i banchieri e i loro cani da guardia… celebravano la felicità eterna e l’idea che la provvidenza passava dai lasciti della loro balordaggine… intanto si facevano incensare dalla fotografia — come quella di Steichen — nell’estasi dell’immortalità… alla pari dei morti di fame o dei massacrati dalle guerre, questi abatini del culto dell’avvenire, restano a memoria (non solo) della fotografia come mummie imbalsamate, persuasi che la futilità dello spettacolo che incarnano, un giorno possa davvero riconoscerli protagonisti di una civiltà senza domani.
Una rottura profonda con l’identità e la monotonia della fotografia imperante non è solo necessaria, ma quanto mai salutare, prima di procedere alla liquidazione dell’ordine stabilito… e solo a partire dall’abolizione dei culti, dei miti, dei riti… che la facciamo finita con la terminologia dei vincitori… è con la rottura delle gerarchie dell’apparenza che s’intravvede la possibilità, del tutto utopica e per questo possibile, di rovesciare l’inviolabilità del linguaggio fotografico e fare a pezzi il cinismo mercatale che ne vieta la rivolta… la fotografia precede l’uomo, giacché si può dire, essa non è possibile se non attraverso la distruzione del suo statuto di merce, inutilmente puro.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte maggio, 2018
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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