“Le foto sopprimono la nostra coscienza critica,
per farci dimenticare la stupida assurdità del funzionamento,
e solo grazie a questa rimozione è possibile, in generale, funzionare.
Le foto creano così un cerchio magico che ci circonda sotto forma
di universo fotografico. Bisogna rompere questo cerchio”.
Vilém Flusser

La fotografia è una stella di luce che cade su una terra lontana o di pizzo o, anche, una sorta di banditismo che ignora gli idolatri della forma, del gioco e del delirio… appesi alla filosofia nel boudoir (ma De Sade non c’entra nulla) dell’arte fotografica, dove chiari di luna e terrori eleganti sono battezzati nei fasti di una civiltà della deflagrazione… ogni forma di fascinazione dell’insincerità porta in sé la forza che la stritola. Negli esercizi di perfezione emergono anche gli apogei dell’indifferenza e non c’è da stupirsi troppo se l’ultimo dei vagabondi possa valere più di tanti artisti del privilegio (quello accreditato al tempo dello spettacolare integrato). E se mille volte diamo ragione al “divino marchese” per la ricerca della felicità attraverso il vissuto (quale che sia) delle proprie emozioni… capiamo meglio l’inquietudine selvatica o nobiliare di un assassino. Il conformismo è il luogo dove l’artista sublimato e l’assassino impiccato s’incontrano! Qualsiasi arte esiste e si afferma soltanto grazie a opere di provocazione! Quando comincia a rinsavire finisce in un museo o su una forca.
Edward Steichen, fotografo statunitense, pittore, designer… al di là del bene e del male ha lasciato una traccia forte nella fotografia del Novecento… nasce a Bivange (Lussemburgo), il 27 marzo 1879, scompare a West Redding (Stati Uniti), il 25 marzo 1973. Nel 1881 la famiglia emigra negli Stati Uniti e nel 1900 Steichen diviene cittadino statunitense. Si forma come pittore di belle arti, poi si avvicina alla fotografia secondo il senso estetico del “pittorialismo” che nei momenti di raffinatezza più alta, si dimentica il sudore della strada e s’impiglia nei merletti dell’arte per salotti dabbene… ai quali, del resto, le opere di Steichen, Alfred Stieglitz, Gustave Le Gray, Peter Henry Emerson, Robert Demachy, Frederick Evans, Clarence H. White, Alvin Langdon Coburn, Guido Rey, Luigi Ghirri, Guido Guidi, anche (sorvoliamo sui colorismi di Franco Fontana)… sono destinate. I rifacimenti della pittura del ‘400/’500 o gli sbocchi nel naturalismo plebeo che affascinava l’inattualità di questi borghesucci col vezzo d’artista (e molti di loro erano anche piuttosto bravi sia nell’inquadratura, sia nelle tecniche di sviluppo delle immagini)… tuttavia ciò che più corre nei loro vangeli estetici è la composizione imbellettata a discapito della realtà ferita o umiliata, come destino dei vinti. I pittorialisti erano così presi dalla loro arte del drappeggio visuale che non facevano troppo caso che il cinema, la fotografia, la letteratura, il giornalismo e le telecomunicazioni stavano cambiando il mondo… esprimevano una filosofia della storia ad uso quotidiano e almeno i migliori… si chiamavano fuori dall’estasi del naufragio o dai lamenti della tragedia borghese e nella freschezza o nell’irriverenza delle loro pene eleggevano la bellezza a forma di giustizia, e tutto il resto non era che simbologia del privilegio che andava affossato.
La fotografia che rigetta il convenzionalismo induce a uno scisma: o si è portavoce di cimiteri splendenti dell’immagine galleristica o si è disingannati di ogni ordinamento sociale e ogni affabulazione artistica diventa terrorismo delle belle arti. Tutta la storia della fotografia — checché se ne dica — non vale una sbronza con un amico o un bacio fogliante di una ragazza sulle barricate della prossima Comune. Le annotazioni su Steichen ce lo rendono simpatico… nel 1905 conosce Alfred Stieglitz e fondano Little Galleries of the Photo-Secession a New York… un luogo dove si parlava e si vendeva fotografia d’arte… intanto Jacob Riis, nei bassifondi lì accanto, si occupava della miseria degli immigrati, della povertà estrema e “per la prima vola la fotografia diventa un’arma nella lotta per il miglioramento delle condizioni di vita degli strati poveri della società” (Gisèle Freund). Che bello! Mentre Steichen si diletta con la luna tra gli alberi che si rispecchia in un lago, Riss disvela come vive l’altra metà degli americani, cioè nei pidocchi e nei tuguri della grande città… è vero anche che “The Pond-Moonlight” (1904) di Steichen nel 2006 è stata battuta all’asta per 2.9 milioni di dollari, come è vero che l’intera opera di Riis è solo relegata a studi sulla fotografia sociale o tuttalpiù riprodotta nelle dispense a puntate allegate ai grandi giornali, così, tanto per mostrare che la povertà è un’eredità secolare di tutti i governi. E pensare che basterebbero i soldi di una fotografia come quella di Steichen [o di Andreas Gursky, “Rhein II”, venduta per la cifra di 4.3 milioni di dollari, altro grande dispensatore di amenità mercantili, a dire poco imbecilli, per non parlare di un’altra sciocchezza fotografica, quella di Cindy Sherman, “Untitled #96”, smerciata a peso d’oro ]… con i dollari dell’immagine di Steichen, dicevamo, si potrebbero prendere a calci in bocca i responsabili di tante infamie sugli ultimi della Terra e “con le forme del bello sconfiggere i mostri del Novecento: il brutto e il tragico” (Renzo Bodei)… la conoscenza dei volti della collera, della pietà e della gioia che si trascolorano nel volto dell’umanità, semplicemente.

Insieme al buon Stieglitz (quello che ha fatto una delle immagini tra le più razziste sull’emigrazione americana, “The Steerage”,1907), Steichen fonda, come già detto, il gruppo Photo-Secession, del quale fanno parte esponenti di vaglio della fotografia statunitense… Gertrude Käsebier, Clarence H. White, Alvin Langdon Coburn, Frank Eugene, Anne Brigman, Alice Boughton e Joseph T. Keiley… intelligenze feconde che tendevano al sublime in mancanza del vero… l’effusione dei mercati stava dalla loro parte, certo, ciò che più importava era di essere amati… la raffinatezza in fondo è sempre stata il soggetto ideale per la psicanalisi e per i guerrafondai… angeli e demoni che stimolano secoli di nevrastenia senza mai riuscire a provare un tremito del dolore o dell’oppressione che li circonda… semplici di spirito per un’arte senza spirito, si rifugiano nelle branche del commercio e del sapere, e fanno della fascinazione del nulla l’imperio delle loro fortune.
Oltre alla creazione della celebrata Galleria 291 sulla Fifth Avenue (New York), a Stieglitz e Steichen si deve anche la nascita della rivista Camera Work (1903), che si proponeva di «dare nuovo spunto al pittorialismo verso nuovi confini e presentare immagini non solo del gruppo e non necessariamente americane»… ed era cosa meritoria. — “Che si trattasse di una rivista di straordinaria eleganza e raffinatezza lo si capisce se si pensa che nelle cinquanta pagine di cui era composto ciascun fascicolo trovavano spazio dalle dieci alle quattordici riproduzioni a piena pagina del o degli autori presi in considerazione, accompagnati da articoli di estetica e di politica culturale di più ampio respiro. Anche la grafica era molto curata: il logotipo della testata fu disegnato dallo stesso Edward Steichen, tenendo presente l’esperienza estetica dell’Art Nouveau viennese” — (Maurizio Rebuzzini, direttore di Fotographia). Tutto vero. Ciò non toglie che al fondo della cultura pittorialista di Steichen e degli aderenti a quella visione dell’esistenza, c’è qualcosa di esibito come orgoglio e conquista da lebbrosi, cioè un’educazione e un fervore pudico dell’ottimismo che poggia i propri meriti sulla civiltà dell’effimero.
Le fotografie di Greta Garbo, Marlene Dietrich, Gloria Swanson o i lavori per Vogue, Life ecc., rendono Steichen giustamente famoso… del resto, l’alienazione del lettore/spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato è il risultato della sua stessa attività incosciente, nella quale si riconosce, si specchia, che vive come immagine del bisogno, del suo proprio desiderio: Lo spettacolo, del resto, “è il capitale giunto a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” (Guy Debord). Lo spettacolo è il momento in cui la merce assurge a complemento della modernità della lacerazione che sviluppa sull’uomo e lo permea nella vita collettiva. Lo schermo dello spettacolo è un’ideologia, un compimento di distruzione dell’insieme sociale, un linguaggio unificato che congela nell’apparenza la sotto-comunicazione generalizzata come pensiero dello spettacolo… il pittorialismo voleva elevare l’arte della fotografia senza sopprimerla, ma il mondo è già stato interpretato/fotografato a fondo, si tratta invece di cambiarlo alla radice.

Quando lavora per la Condé Nast Publications, una casa editrice che pubblica Vogue, Vanity Fair, The New Yorker… Steichen apporta profondi cambiamenti nell’industria delle immagini e dà un rilievo importante alla fotografia non più come corredo agli scritti ma come espressione personale dell’autore… da non dimenticare che nel tempo passeranno su queste pagine fotografi come Richard Avedon, Cecil Beaton, Guy Bourdin, Irving Penn… di là di cosa pensiamo della fotografia di moda o di cronaca o del reportage di guerra, quello che è importante non è la paura della meraviglia (o dell’intelligenza) ma il suo uso. Anzi, lo vogliamo dire. Una società che si riflette nella dottrina o nei surrogati del mito, è una macchina del consumo permesso e partecipa alla costruzione unitaria del pensiero alienato che garantisce l’ordine costituito.
Nel corso della prima guerra mondiale, Steichen ricopre il ruolo di direttore dell’istituto fotografico navale degli Stati Uniti e nel 1944 riceve il premio Oscar per il documentario La grande combattente (The Fighting Lady)… va detto che il co-regista era un maestro del cinema americano, William Wyler, quello di La calunnia (1936), Strada sbarrata (1937) o I migliori anni della nostra vita (1946)… un lavoro di propaganda, sicuro, ma anche onesto nell’affermazione dei valori di libertà di un intero Paese. La sceneggiatura fu scritta da John S. Martin e Eugene Ling, il montaggio (la forza del film) era di Robert Fritch e la musica di David Buttolph. Il film non è una lode alla guerra ma un canto alla pace o, forse, un’accusa contro l’ingiustizia che governa l’universo.
Nel 1955 Steichen cura un’esposizione tra le più importanti della storia della fotografia, The Family of Man… si tratta di una selezione di fotografie che ripercorrono la vita degli uomini dalla nascita alla morte… una cosa geniale… 503 immagini scelte tra quasi 2 milioni, scattate in 68 paesi da 273 fotografi… al di là delle esclusioni o delle imposizioni critiche… resta il fatto che quest’opera monumentale (inserita dall’Unesco nell’elenco delle memorie del mondo nel 2003) è davvero qualcosa di eccezionale… qui la fotografia si afferma come cantico di una realtà che va difesa e passaggio verso la bellezza, l’audacia, il coraggio e l’arte di dire qualcosa su qualcosa e possibilmente contro qualcuno, e diventa storia dell’umanità.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 20 volte maggio, 2018
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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