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Due grandi cambiamenti

di Silvia Camporesi

La fotografia dagli esordi ad oggi ha vissuto due innovazioni fondamentali che ne hanno modificato in modo determinante la semantica e l’uso: l’introduzione del negativo e il passaggio dall’analogico al digitale. Il dagherrotipo era la rivelazione, tramite procedimento chimico, di un’immagine latente su una lastra di rame e per sua stessa natura era un pezzo unico, non riproducibile: la traccia di luce a due dimensioni di un soggetto esistente, ma da un punto di vista semantico era considerabile come qualcosa di più vicino all’unicità pittorica che all’idea di fotografia nel senso consueto. Idea che arriva solo qualche anno dopo, nel 1841, quando William Fox Talbot inventa il calotipo, ovvero l’antenato del negativo. Questo importante passaggio segna una svolta decisiva nell’uso della fotografia: dato un negativo, l’immagine in esso contenuta è potenzialmente riproducibile all’infinito. Ogni immagine può essere stampata tante volte, in modalità diverse, e assolvere a svariate funzioni. L’aspetto della riproducibilità, dal momento in cui – in tempi più recenti la fotografia diventa elemento da collezione al pari delle altre forme di espressione artistica – necessita di una regolamentazione dichiarata delle tirature, per definire e rendere noto il numero di copie di un’opera fotografica in circolazione. Per lo stesso motivo si parla di fotografie vintage riferendosi alle stampe eseguite nel tempo più vicino alla data dello scatto, differenti dalle new prints, realizzate invece successivamente. Lo stesso soggetto fotografato, se stampato dall’autore subito dopo lo scatto ha un valore certamente maggiore (a volte con l’aggiunta di uno zero) di una new print stampata in tempi più recenti.

Erik Kessels - 24HRS in Photos

Il passaggio al digitale, il secondo momento determinante nella storia della fotografia, non ha cambiato nella sostanza i termini della fotografia ma, grazie alla rivoluzione tecnologica che ha reso lo scatto veloce e alla portata di tutti, ne ha potenziato le destinazioni d’uso, aumentando esponenzialmente la quantità di immagini prodotte. Curioso e significativo l’aneddoto che Joan Fontcuberta racconta nell’incipit de “La furia delle immagini”, quando in tempi non sospetti fu interpellato dalla casa di cellulari Nokia per chiedere la sua opinione sull’idea di produrre un telefono in grado di scattare fotografie ed egli, senza lungimiranza, liquidò la cosa dicendo che era un’idea che non avrebbe mai funzionato. Proprio la diffusione delle immagini realizzate tramite le fotocamere dei telefoni cellulari ha creato quella sovrabbondanza che contraddistingue il post-digitale, manifestata in modo magistrale da Erik Kessels, attraverso una delle opere più interessanti e acute dal punto di vista della riflessione  sulla fotografia di inizio millennio:  “Photography in abundance” un’installazione composta da un numero enorme di fotografie, stampate in piccolo formato, proposta per la prima volta nel 2011 al Museo Foam di Amsterdam. Kessels parte dal considerare il fatto che le immagini hanno via via perso la loro fisicità, trasformandosi da oggetto bidimensionale a sequenza numerica digitalizzata, comprimibile in pochissimo spazio. L’immagine si è smaterializzata e noi non abbiamo alcuna idea di quante fotografie esistano nella grande nuvola del web, di quante immagini vengano aggiunte ogni istante, di quanto peso, sebbene immateriale (ma che ha conseguenze materiali: hard disk, sistemi operativi, clouds, motori di ricerca, ecc.) grava sulle nostre reti eternamente connesse. Kessels decide di stampare tutte le immagini che nell’arco di 24 ore sono state caricate dagli utenti di ogni parte del mondo sulla piattaforma Flickr, e il risultato è un numero impressionante di fotografie, parafrasando Borges, una quantità tale da creare una mappa del mondo in scala 1:1, dove cioè ogni piccolo punto del globo ha un suo corrispondente fotografico (la stessa operazione che da anni conduce l’artista Paola Pivi, desiderosa di rilevare, attraverso la fotografia, l’isola di Alicudi in scala 1:1). La progressiva somma di tutte le immagini che ogni giorno vengono prodotte ci proiettano in un universo borghesiano, dove lo spazio e il tempo si incasellano in dimensioni impossibili. Quest’opera, nella sua fisicità, è una sorta di monito che ci invita a riflettere sullo spazio, sul senso, sulla necessità. Ci porta al cuore della domanda relativa alla destinazione dello scatto, sul dove le immagini vadano a posarsi, a stendersi, sul senso e la necessità del riempire le nostre vite di schermi, di vedere attraverso schermi, per poi dimenticare quel che abbiamo visto/fotografato già un istante dopo. Un giorno tagliavo le arance per fare una spremuta a mia figlia e prima di spremerle le ho fotografate. Mia figlia, che allora non aveva ancora 5 anni, mi ha detto “Le arance si mangiano, non si fotografano”. Con le sue parole ingenue ha aperto un vortice di senso attualissimo sulla necessità di catalogare, di riprodurre e mettere da parte, di riprodurre per nessun vero motivo, forse perché oggi è facile farlo e sembra che non farlo equivalga a perdere qualcosa.

Paola Pivi
Silvia Camporesi-Domestica (2020)

Come sottolinea acutamente Nicholas Mirzoeff, “Tutte queste fotografie e questi video sono il nostro tentativo di vedere il mondo. Ci sentiamo costretti a riprodurlo in immagini e a condividere queste immagini con gli altri, come parte essenziale del nostro sforzo di capire il mondo che sta cambiando intorno a noi e con esso la nostra collocazione al suo interno[1]. Davanti ad un qualsiasi luogo o ad un qualsiasi evento da registrare (monumenti, luoghi turistici, matrimoni, concerti, ecc) il gesto del fotografare, di interporre fra l’occhio e il soggetto un dispositivo di registrazione dell’immagine, sembra sostituire in modo totalizzante l’atto del vedere. “Le immagini dovrebbero essere mappe e invece sono schermi” scriveva nel 1984 Vilem Flusser[2], in un’analisi predittiva perfettamente calzante alle dinamiche dei social: anziché rappresentare il mondo le immagini lo sostituiscono, il mondo diventa esso stesso un’immagine, e questo avviene poiché l’uomo dimentica di aver creato lui le immagini per orientarsi nel mondo grazie ad esse, le considera reali e crede ad esse.

Don de Lillo in “Rumore bianco” racconta alla perfezione questo processo: il racconto è relativo ad un’attrazione turistica, annunciata da una serie di cartelli che la definiscono la stalla più fotografata dAmerica, un luogo che nessuno realmente vedrà perché, una volta letti i cartelli, diventa impossibile vedere la stalla in sé. “Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla. Ogni foto rinforza l’aura. Un’accumulazione di energie ignote[3]. L’idea che i cartelli annuncino qualcosa che è fortemente fotografato ci impedisce di vedere la realtà in sé, e ci obbliga invece ad inquadrarci in una percezione collettiva, tanto che il protagonista del romanzo non esita a definirla come “un’esperienza religiosa.” Come le persone che, nel romanzo, si recano presso questa semplice stalla per fotografarla, anche noi, quotidianamente fotografiamo il fotografare, scattiamo immagini di cose che realmente non vediamo, perché già in qualche modo idealizzate e categorizzate, come appunto “la stalla più fotografata d’America: “Che aspetto avrà avuto, in che cosa sarà differita e in che cosa sarà stata simile alle altre stalle?”. Fotografie di bambini, di animali, di piatti pieni di cibi, di tramonti, di spiagge, di tatuaggi, solo per citare alcune delle categorie più condivise. L’artista Dina Kelberman ha creato una piattaforma dal nome “I’m Google” in cui, attraverso un’attenta esplorazione delle immagini su Google, genera delle sequenze di numerosi soggetti simili, ma sempre diversi, e che ad un certo punto cambiano in un nuovo soggetto avente similitudini di forma o colore col precedente. Questo flusso di coscienza per immagini è un piccolissimo assaggio di cosa può contenere il web in termini di fotografie amatoriali, immagini estremamente simili provenienti da luoghi e nazioni diverse, scattate in tempi diversi, con storie completamente dissimili, che permangono a disposizione di tutti sul grande archivio diffuso che è il web.

Dina Kelberman - I'm Google

Assolutamente rappresentativo, in questo senso, il lavoro Sunset dell’artista Penelope Umbrico, un’acuta riflessione sul tema del fotografare un classico topos della fotografia amatoriale, ovvero il tramonto. Un giorno l’artista sente l’impulso di scattare una fotografia del tramonto, ma prima di scattare decide di controllare quante immagini esistono già sul web digitando la parola “sunset”. È il 2006 e Google individua 541,795 immagini di tramonti e, in un atto di ecologia fotografica, decide che il numero è già enorme, non serve produrre una nuova immagine, invadere con nuove riproduzioni di tramonti; pertanto, raccoglie alcune delle immagini di tramonti che trova sul web, unendoli in un grande wallpaper che riporta, come titolo, la data e il numero. Salvo poi creare un cortocircuito, poiché i visitatori alle sue mostre si fotografano davanti al wallpaper e creano così nuove fotografie che contengono ricorsivamente tramonti.

Penelope Umbrico - Suns from sunsets from Flickr

È interessante notare però che questa sovrabbondanza non è esclusiva dell’epoca digitale, ma è qualcosa di connaturato e proporzionale alla progressiva facilità dell’azione fotografica. Dal 1839 l’archivio fotografico mondiale si è andato arricchendo sempre più velocemente di materiale, in una prospettiva simile a quella descritta nel racconto di Italo Calvino “L’avventura di un fotografo”: un uomo che partendo dalla classica passione per la fotografia si ritrova ad essere inghiottito da un’autentica ossessione per la catalogazione fotografica fino a perdere il controllo delle sue pulsioni e a perdere il controllo del senso di ciò che fa. Sull’altro versante risulta a dir poco impressionante pensare che un’importante fotografa del ‘900 come Tina Motti abbia scattato nell’arco di 7 anni (dal 1923 al 1930, gli anni in cui si è dedicata alla fotografia), poco meno di 250 fotografie e la metà sono considerate universalmente capolavori.

[1] Nicholas Mirzoeff, Come vedere il mondo, Jhoan and Levi, 2017

[2] Vilem Flusser, Per una filosofia della fotografia, Bruno Mondadori, 2006

[3] Don de Lillo, Rumore bianco, Einaudi, 2014

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