Per chiudere, ma come anche per aprire, prendiamo l’immagine del Ragazzo col bambino morto sulle spalle e i piedi scalzi nel fango sul bordo della strada, dopo lo scoppio della bomba su Nagasaki, ad opera dal marine Joseph Roger O’Donnell… è molto piaciuta a Papa Francesco, che l’ha fatta distribuire ai giornalisti in uno dei suoi viaggi, abbinata a frasi scritte di suo pugno: “Il frutto della guerra”, “La tristezza del bambino solo si esprime nel suo gesto di mordersi le labbra che trasudano sangue” o “Commuove più di mille parole”… a parte la banalità delle diciture, degne di un avvinazzato mattiniero… la collusione della fotografia e mass-media dovrebbe far riflettere sul valore d’uso dell’icona buona per tutte le mattanze…quando la teppaglia incorona un Mito, preparatevi a un qualche terrorismo della Borsa, peggio ancora a un nuovo macello.
L’immagine del Ragazzo col bambino morto sulle spalle è messa anche malamente in posa e perfino l’atteggiamento del ragazzo ci piace poco, sa molto da piccolo samurai di borgata… nemmeno c’importa se il bambino sulle spalle è morto o stremato dalla fatica… il marine lo inquadra di sguincio… sull’attenti… obbedisce a un ordine… si vede… l’imposizione del vincitore? la devozione verso l’imperatore? l’inclinazione all’obbedienza cieca?… mah… forse c’è tutto questo e altro ancora… un semplice frammento di salvazione, di paura contenuta o superata o l’obbligo di avere un destino da sottoposto. I vestiti bianchi e il bianco della pietra sull’orlo della fanghiglia si stagliano nel nero sfocato… il bambino imbrigliato da fasce nere ha la testa riversa all’indietro… è morto?… sfinito?… fa lo stesso… il centro delle lacrime è la sua faccia che si spegne verso un altro domani.

Marco Belpoliti, fine dicitore di storia/critica della fotografia, puntualizza che il “bambino è morto a causa del bombardamento atomico sulla città giapponese e il giovane lo sta portando a far cremare; così almeno le didascalie sui quotidiani del 16 gennaio” … nell’inquadratura c’è un senso di sradicamento, un qualcosa che è finzione o fuori posto da ispettorato di polizia… una differenza fra l’istante fotografico e la territorialità nella quale si depone… una miseria del presente che si fa messaggera d’una perdita riscattata dalla fotografia come specchio di un altro mondo.
Il Ragazzo col bambino morto sulle spalle raccorda la verticalità dell’immagine con l’azione che partecipa alla fabula… l’inconscio ottico o fotografico fa il suo giro fuori dalla spontaneità dello sguardo… resta tuttavia la dimensione onirica/sulfurea della guerra che ne restituisce le spoglie… è la raffigurazione di una relazione tra la fotografia e chi la guarda… ciò che ne esce è il senso di compassione e ingiustizia che espande… quell’abbandono dell’infanzia violata dalla guerra che non permette assoluzioni! In questo senso la cultura/spiritualità millenaria del fiore di Loto si sversa nel fotografico inascoltato, risveglia il senso profondo del desiderio di pace e fraternità tra i popoli e inaugura il cammino verso la felicità umana.
Le foto-scritture della disperazione di Hiroshima e Nagasaki rifiutano catechismi, ideologismi, imperatori, re e regine, e tutta la gentaglia con la quale hanno eretto nei secoli universi di sangue… vediamo di entrare al rovescio nella fotografia del tragico che aiuta l’uomo a riflettere o indignarsi! C’è una premessa… quella di Luigi Zoja… psicoanalista d’alto vaglio… quando scrive che “nei testi americani, i termini che descrivono la fotodocumentazione sembrano ricavati da manuali per le armi da fuoco: loading (caricare), aiming (prendere la mira), shooting (fare fuoco o scattare)” … tutto vero… sono il bagaglio linguistico degli stupidi che ci credono e fanno sfoggio di tecniche sapienziali da workshop… senza sapere mai che non è la fotocamera o la scuola che conta per fare una fotografia… ciò che vale è se sei un figlio di puttana che va in culo a tutti e a tutto, e a un certo grado di raffinatezza, mostra che i tiranni come gli imbecilli che li sostengono, vengono impiccati sempre troppo tardi!
Va detto. I bambini piacciono molto quando sono ammazzati per fame, sbudellati dalle bombe o bruciati dal Napalm… proprio come quando sono in braccio ai profeti, dittatori, papi, generali e perfino ai Kapò che li spingevano nelle camere a gas… fior di fotogiornalisti ne hanno fatto un mestiere rilevante… premi, riconoscimenti, lezioni accademiche… li tengono in gran considerazione nelle storie della fotografia, come nei seminari d’iniziazione all’immagine o nei mercati dei musei, gallerie, mecenati d’alto bordello… in fondo non è poi proprio male stare dalla parte dell’incenso opportunista che sa di porcile e dove il maggior numero dei fotografi sguazza in bella uniformità! In fondo si deve pur mangiare, dicono… giusto… gli affari sono affari, no?… vero… ma allora che c’incastra la poetica della fotografia?… niente, nevvero?… il diritto di cronaca non c’entra… non ci prendiamo per il culo!… vale per gente sconsacrata a tutto, come Eugene W. Smith e pochi altri… il resto sono dei pezzenti in cerca di un Pulitzer o World Press Photo qualsiasi… la genialità concessa al servo di diventare capo degli stallieri… che bello!… e pensare che i fotografi più acclamati, spesso sono più inservibili alla fotografia dei santi!
La fotografia che non contiene l’autobiografia, l’etica o lo sdegno che la suggerisce, finisce nella pestilenza della carità, che è una pietà senza scrupoli! Un minimo di squilibrio ci vuole in fotografia e ogni dove il titolo d’intruso non è usurpato dal vuoto delle lusinghe o dagli engagée del parassitismo ideologico!… niente è più difficile che sbarazzarsi della fotografia comsumerista, perché la fotografia ha radici che si arrestano alla santità della mistificazione… per lungo tempo ho frequentato i fotografi al solo scopo di osservare la loro verità di fronte all’abominio del potere!… e sull’ignoranza dei fotografi colti ho molto studiato… mi sono presto accorto che tutti, o quasi, si farebbero sputare in faccia in attesa che qualsiasi pubblico li fregi di una qualche benemerenza… il loro ardore nell’ascensione al cielo dei parvenu da salotto non ha pari… è davvero un’afflizione aver compreso che per arrivare all’Arte-Dio, si debba passare attraverso la merce e non la poesia! Fotografare significa smentire l’avvenire o demolirlo! o passare a collezionare aureole! L’industria ha “prodotto” la fotografia soltanto per meglio soffocarla, annotava! L’immaginario dello snobismo è quello della perfezione decantata dello stile… la bellezza non c’entra, poiché nella bellezza c’è anche la giustizia! Una teoretica della negazione a tutto ciò che è catechesi della sofferenza o della proscrizione, è forse ciò che serve all’inquietudine per passare dal diritto all’incoscienza a nuove forme di resistenza al presente!
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 19 volte ottobre, 2021
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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