Yōsuke Yamahata è un fotografo militare giapponese di 28 anni (dell’ufficio propaganda)… il comando lo invia a Nagasaki insieme al disegnatore Yamada Eiji e al poeta surrealista, Azuma Jun (Higashi)… sono passate solo 16 ore dall’esplosione della bomba… Yamahata impugna una Leica (dicono…) e scatta 117 fotografie (sembra)… altri parlano di lastre fotografiche… poco importa… Yamahata si aggira tra le macerie ancora fumanti e riesce a cogliere momenti di una qualche tenerezza… come la Madre che allatta il bambino bruciato, Due fratelli sopravvissuti o Il bambino con la palla di riso in mano… quest’ultima fu selezionata per la celebre mostra del MOMA di New York, The Family of Man (1955)… gli organizzatori scartarono i corpi carbonizzati, i superstiti devastati, i feriti ulcerati dalle radiazioni… scelsero opportunamente il Bambino con la palla di riso in mano… l’immagine è attonita… sembra quasi anestetizzare le emozioni del bambino e la ritrosia della madre di fronte al fotografo… la condanna del bombardamento atomico è implicita, quasi uno spaesamento… la mano della madre sembra invitare il bambino a guadare in macchina… perché? Per cosa?

Per noi che siamo un po’ malandrini… il modo in cui madre e figlio tengono la palla di riso in mano, suggerisce una ricostruzione passiva dell’accaduto… alla peggio si sente l’odore di riso della mensa da campo con la bandiera a stelle e strisce… non c’è sincerità nello sguardo, neanche nella posa… quasi una dimenticanza della catastrofe.
La fotografia del Bambino con la palla di riso in mano… ciò nonostante… riesce a toccare il vero fuori dalla messa in scena!… è la verità-momento della vittima sospesa tra l’incredulità e la finzione narrativa… questo vuol dire che comunque lo si voglia, la fotografia, anche la più sbagliata, quando contiene l’umano violato, ne tradisce l’intenzione, avvia un processo empatico che trascende l’attualità e riporta la verità sul volto sfigurato della storia. La fotografia del Bambino con la palla di riso in mano è il salmo dell’innocenza contro il dolore… la faccia ferita del bambino buca la ferocia del disastro e fa della coscienza del dolore il prodotto di una civiltà rudimentale… il dolore e la coscienza del dolore si classificano nella santificazione dei risultati o ne subiscono la perdita… di tutte le calunnie, la peggiore è quella dei governi che usano lo sterminio e dicono che è un passo in avanti per l’intera società.

A proposito… Yōsuke Yamahata muore nel 1966, a causa, forse, dell’esposizione alle radiazioni. Per i rigattieri della fotografia mercatale ci sono vetrine anche per le immagini di Yamahata… si possono acquistare a prezzi modici in vari blog… ne scegliamo uno, questa è la scheda: “Yōsuke Yamahata, “Nagasaki Journey”, 10 agosto 1945, stampa alla gelatina d’argento su carta in fibra lucida, 16,4 (17,8) x 11,4 (12,9) cm, ©Yōsuke Yamahata, courtesy Daniel Blau, Monaco”. Ne facciamo volentieri a meno della cortesia che ci fa questo signore tedesco… e del copyright ce ne sbattiamo i coglioni, poiché fare soldi sullo strazio degli altri, significa trattare la decimazione dell’umano come le scatole di zuppe Campbell’s di Andy Warhol, un furbacchione dell’arte come grado zero della frode espressiva… e un rotto in culo come Banksy lo ha capito bene… è bravo, prende delle fotografie e in maniera anonima (ma non è vero), ri/traccia mirabilmente sui muri delle città splendide figurine di bambine con i cuori, bambini con torce rosse o rivoluzionari che tirano i fiori [tra l’altro, questo rifacimento di Banksy è ripreso, in gran parte, da una delle più iconiche fotografie del Maggio francese ’68, di Henri Cartier-Bresson]… vanno bene per tutti i gusti e inclinazioni… gli originali si vendono a milioni di sterline… come le scimmie del parlamento inglese… le riproduzioni sono impacchettate per la massa e distribuite ai compleanni, sposalizi, perfino negli ospizi… quelli più a sinistra si fanno tatuare i santini di Banksy anche sulla lingua, al posto di Che Guevara… in fondo gettare fiori al passaggio di papi, re, generali e tiranni non ha mai recato danno a nessuno… semmai quella fremente commozione di scambio d’amore col capo che sfila su cumuli di cadaveri!
[Continua…]
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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