L’iconografia del terrore di Hiroshima si può riassumere non tanto nel massacro generalizzato, nelle contaminazioni della popolazione, negli sfregi dei corpi, nelle ombre lasciate sui muri dalla deflagrazione atomica… quanto nella serialità del male che coniuga il linguaggio del crimine con quello dell’estasi… il rispetto dei precetti si porta dietro anche la forca che li giudica… l’assassinio è una fatalità del sapere che si schiude a orizzonti di sangue… promuove vigliaccherie elegiache, discopre ere del terrore dispensate nel fiele delle ideologie, dottrine e mercati globali… lo snobismo dell’economia politica non conosce frontiere… l’epilogo delle coscienze arrese è l’ultima scena di una farsa spettacolare che ha annegato o interna to insorgenze generazionali che chiedevano il bello, il buono e il bene comune!
A che pro smascherare l’irrealtà, se basta introiettare la stupidità di una star della politica, della religione, dello sport, della musica, del cinema, della moda o della cucina… per continuare a credere che l’energia nucleare è una pratica necessaria alla crescita del genere umano e non uno strumento della malevolenza che l’affossa?… la pace non si discute sui tavoli internazionali né si piega a interessi guerrafondai dei Paesi ricchi… la pace si conquista a colpi di disobbedienza civile! Costi quel che costi! ʿOmar Khayyām, matematico, poeta e filosofo persiano, lo scriveva, accompagnato da una coppa di vino: “Meglio in quest’epoca pochi amici prendere, meglio farsela alla lontana con la gente di questo tempo. Quegli cui tu del tutto ti affidi, ove tu apra l’occhio della saggezza, (vedrai che) è tuo nemico”. La fraseologia sulla competenza assassina della bomba atomica è lo spartiacque dell’inconcepibile storicizzato che ha prodotto l’egemonia del delirio.
Del ritratto di donna che stringe in braccio il suo bambino tra le rovine di Hiroshima, preso da Alfred Eisenstaedt nel 1945 — A mother and child in the aftermath of Hiroshima — (vedi, LIFE Picture Collection/Getty Images), e poi se non è così ci va bene lo stesso: madre e figlio sono avvolti in abiti tradizionali… seduti sul tronco di un albero bruciato… non c’è tremore sul volto della donna accarezzato dal vento… neanche lo sguardo del bambino introduce al sopravvissuto… c’è un’antica dignità per qualcosa che nemmeno il fuoco della bomba ha scalfito… una sorta di esulcerazione della verità… la maledizione verso nessun genere di nobiltà d’animo… l’eccidio dell’ingenuità è parte dei disegni economici-politici di governi, partiti e fazioni… e il dileggio della libertà s’accorda sempre con la malvagità che la rammenda!
La fotografia di Eisenstaedt — come ormai sembra essere diventato un eserciziario da ricamo etico-estetico nella fotografia, nel cinema e ovunque un serafino affondi nella manualistica tecnologica i propri vaneggiamenti —… è stata colorizzata da non c’importa chi… i verdi, i marroni, i rossi della donna e del bambino sono messi in contrasto con l’albero nero… c’è perfino il tramonto rosato sui monti… una roba da fanatici del pressappochismo d’annata… coglioni della grafica appiccicata alla fotografia… una degradazione del gusto nella quale nemmeno il boia di Londra sarebbe incappato!… del resto… al fascino della merce non è facile sottrarsi o farne un bottino da esagitati o da reprobi della nullità… il romanticismo degli sciocchi trova sempre buoni clienti che non sanno mai decidersi tra una macchina fotografica o un cesso firmato… sono ridicoli come le scomuniche, ma hanno le loro ragioni… fin quando non sono finite le scorte di demenza non sarà possibile uscire dalle acclamazioni senza remore… che peccato che, per diventare santi della tecnica si debba passare dalla cultura dell’imbecille! L’esercizio della tolleranza è cosa per aguzzini della libertà, perché sottace l’in tolleranza del privilegio di decidere le sorti di un uomo, di un popolo o di un pianeta… la fotografia che vale non scende a patti con la soggezione e nemmeno con l’imposizione… scatena l’insolenza che svela o incrina la psicologia delle tenebre della società istituita! Non si deve mai scendere tanto in basso da odiare un sistema di apparenze, negazioni e oltraggi inauditi, si tratta solo di distruggerlo.
Le fotografie delle vittime di Hiroshima e Nagasaki ricordano i cumuli di cadaveri dei campi di sterminio nazisti… per ordine del generale McArthur, quello che portava la pistola col manico di madreperla al fianco e fumava la pipa di granturco… vennero sequestrati la maggior parte dei negativi e fu possibile vedere ciò che era accaduto in Giappone solo nel 1952… la rimozione della carneficina fu quasi totale… ammassi di fatalità abbrutivano smarrimenti e perseguitavano lamenti… non erano previste giustificazioni… al cospetto dell’umanitarismo, gli americani rinnovavano (alla pari d’ogni tirannide) un aspetto d’assassini!
Qualsiasi forma del comunicare è esposta alla manipolazione… dipende da come viene presentata… lo sappiamo… in televisione e dappertutto, una menzogna ripetuta molte volte, diventa la verità!… il linguaggio pubblicitario, quello politico, religioso o culturale s’insinua nell’inconscio collettivo che lo eleva a sintomi di una fede in qualcosa di astratto, legato alla scelta seduttiva che l’affoga… è la filosofia dei simulacri di realtà che mangiano l’anima, ma a che serve poi un’anima se basta una qualsiasi mitologia proposta mercantile per garantire un mondo irredimibile? Il sistema dominante, dicono — Nietzsche, Dostoevskij, Céline, Cioran e anche il cane bastardo di mia nonna partigiana, Spartaco —, è sempre la voce/volto del linguaggio dominante… e proprio per questo ogni sistema è totalitario! Solo nell’aforismario del plagio o del détournement del segno-immagine, il pensiero rimane libero! Sono la forma d’espressione più vera perché è più vicina al silenzio quanto al dissidio!
[Continua…]
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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