“Burnett è un grandissimo fotografo statunitense poco conosciuto in Italia, non ne conosco i motivi però è un vero peccato che ad un pluripremiato autore non vengano dedicate attenzioni quante se ne riservano a fotografi più popolari ma sinceramente meno “consistenti”.
Provo quindi a raccontarvi qualcosa della sua vita e del suo lavoro nella speranza di appassionarvi.”
David Burnett si laurea presso il Colorado College e inizia la carriera fotogiornalistica nei primi anni ‘70. Il suo impegno da fotoreporter, profondo e intenso, lo porta a collaborare per il Washington Post e il Time Magazine e da allora ha raccontato alcuni degli eventi più importanti del XX e XXI secolo. Detiene un record particolarissimo: ha immortalato tutti i presidenti Usa messi in stato d’accusa, Nixon, Clinton e Trump e la sua critica ancora valida è stata: “Solo all’epoca del Watergate la politica cercò la verità”.
Una delle immagini più celebri che realizzò fu in un campo profughi a Sa Keo nei pressi del confine tra Thailandia e Cambogia, mentre era in atto la caduta dei Kmer rossi, una donna cambogiana culla il suo bambino in attesa della distribuzione del cibo al Sa Kaeo Holding Center. Il centro di detenzione era stato aperto un mese prima per accogliere i rifugiati in fuga dalla Cambogia dopo l’invasione vietnamita. Nel gennaio 1979 l’esercito vietnamita catturò Phnom Penh e fondò la Repubblica popolare di Kampuchea, ponendo fine al regime dei Khmer rossi. L’invasione ha causato una migrazione di massa di centinaia di migliaia di cambogiani che tornavano a casa o fuggivano nella Cambogia occidentale, vicino al confine thailandese. Con questa foto David Burnett ha vinto il World Press Photo of the Year nel 1980
Nel 1976 è fra i fondatori di una nuova agenzia di stampa, la Contact Press Images a New York e questa storia merita una deviazione dal racconto su David.
Dieci mesi dopo che gli ultimi americani in Vietnam furono evacuati da un tetto di Saigon nell’aprile 1975, Robert Pledge e David Burnett fondano la Contact Press Images in New York City. Pledge è un giornalista franco-britannico specializzato in “affari africani”, e Burnett, un americano, l’ultimo fotografo assunto dalla rivista Life per coprire la guerra nel sud-est asiatico, prima del suo scioglimento nel 1972.
Sia per Burnett che per Pledge la guerra in Vietnam è stata formativa, quella triste vicenda ha plasmato la loro visione su cosa significhi davvero portare a termine una missione giornalistica, raccontare i fatti reali e non le declinazioni che qualche direttore vorrebbe raccontare ai lettori. Nei successivi tre decenni i fotografi della Contact avrebbero date seguito alle sue lezioni, in modi sia espliciti che subliminali, riaffermando l’esistenza di inalienabili diritti umani, la necessità di mettere in discussione l’autorità e la sensazione che la storia stessa fosse il vero campo di battaglia.
Decidere di avviare una propria agenzia coincise con la presidenza negli USA di Jimmy Carter e l’aumento della preoccupazione internazionale per i diritti umani con un chiaro sentore che erano in atto cambiamenti radicali nel mondo del fotogiornalismo.
Erano anni in cui tutto si stava trasformando: la diffusione della televisione a colori stava cambiando la visione delle fotografie in bianco e nero, le riviste Life e Look chiudevano i battenti e Time, Newsweek e US News & World Report dovevano ancora diventare i settimanali riccamente illustrati con immagini a colori che conosciamo bene. L’obbiettivo di Pledge e Burnett era sulla traccia della famosa agenzia Magnum di Parigi, avviare una agenzia di fotografi indipendente dai giornali per mantenere i diritti sulla produzione delle loro immagini, cambiare la visione che permeava le redazioni, passare da funzionari ad autori e con questo progetto aprirono un ufficio a New York City chiamando con sè una manciata di fotografi, tra cui: Alon Reininger che iniziò a coprire l’apartheid in Sud Africa prima che le rivolte a Soweto attirassero l’attenzione internazionale; il canadese Douglas Kirkland, famoso per le sue immagini di icone del cinema e l’italiano Gianfranco Gorgoni, che ha documentato il mondo dell’arte newyorkese.
A loro si unì presto Rick Smolan, che fondò la serie “Day in the Life” e Dilip Mehta, nativo indiano, che nel 1977 divenne uno dei primi fotoreporter dai tempi di Margaret Bourke.
In agenzia arrivò anche Annie Leibovitz, nel 1977, riaffermando così la convinzione dell’agenzia che le storie che si potevano raccontare erano ben più di semplici “notizie”. La fotografia non era solo a supporto di un articolo, le immagini potevano essere il cuore della storia su cui le parole potevano appoggiarsi. Leibovitz, allora giovane fotografa di Rolling Stone, si trasferì a New York e con i suoi ritratti iconoci ha ridefinito la ritrattistica americana e il concetto di celebrità.
Ancor oggi la Contact è una delle ultime piccole agenzie fotografiche indipendenti ancora esistenti, con poco più di una decina di fotografi attivi. La missione dell’agenzia è rimasta costante: ignorare totalmente notizie “usa e getta” e continuare invece a produrre reportage fotografici approfonditi di pressante attualità e interesse globale, porre domande difficili piuttosto che dare facili risposte.
Ma torniamo a David Burnett.
Uno dei lavori più premiati fu un potentissimo reportage sulla Rivoluzione Iraniana del 1979 e un celebre ritratto dell’Ayatollah Khomeini, la rivista, per quel lavoro, lo elesse “fotografo dell’anno”.
Altri lavori che fecero scuola fu la carestia in l’Etiopia nel 1984 e la caduta del muro di Berlino nel 1989.
Seguì con visione molto critica l’alternarsi dei poteri a Washington DC, attraversò ben nove presidenze, e lo spirito dello sport attraverso sei Giochi Olimpici estivi.
Una nota curiosa: ha fotografato le Olimpiadi del 2004 con una serie di macchine fotografiche d’epoca, un banco ottico, una holga, un medio formato, una vecchia Leica e altre fotocamere ottenendo il plauso del mondo della fotografia per quel lavoro assolutamente fuori dalla norma.
Burnett ha anche aperto la strada a uno dei tratti distintivi di Contact: il lungometraggio a colori approfondito girato sulla pellicola Kodachrome 64 piuttosto lenta. Più lunga da elaborare, ma con grana, colore e tono più fini, l’uso di questa pellicola in aggiunta alla tradizionale Tri-X in bianco e nero per coprire le notizie ha segnalato la filosofia dell’agenzia di combinare velocità e qualità, sacrificando occasionalmente la pubblicazione immediata per qualcosa di più permanente.
Un esempio calzante è stata l’immagine della madre rifugiata cambogiana (ne ho raccontato qualche riga sopra) sebbene scattata per Time, non poteva essere utilizzata dalla rivista a causa del tempo di invio per la spedirla, per lo sviluppo e restituzione, sappiamo che i giornali avevano (e oggi ancor di più) bisogno di pubblicare immediatamente i fatti, nonostante ciò, con la sua lentezza, ha poi vinto il World Press Photo.
Nel 2009 Burnett ha pubblicato una raccolta di scatti inediti del cantante Bob Marley, con il quale trascorse vari mesi durante il suo tour nei Caraibi negli anni Settanta. Questa raccolta rappresenta una meravigliosa risorsa per i fans di Marley che vogliono saperne di più sul leggendario artista reggae. Burnett si è immerso in profondità nella vita di Marley, esplorando la sua prima infanzia in Giamaica e le influenze che hanno plasmato le sue idee e la sua musica. Si è soffermato sui vari concerti e tour che Marley ha intrapreso, dai primi anni in cui suonava in Giamaica al leggendario concerto “One Love Peace” a Kingston, in Giamaica, nel 1978. Molto di più che un reportage.
Ed è proprio durante la presentazione di questo volume che ho potuto incontrarlo e farmi raccontare alcuni passaggi della sua incredibile carriera.
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Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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