Sembra un occhio anche se non lo è. È probabile che il fotografo abbia scelto questa ripresa proprio perché sembra un occhio … oppure no. La forma inquietante rimanda ad un film di fantascienza: crepe, nero, grigio, cavità …. chissà… un mondo sconosciuto. È una materia che ispira paura, che si vorrebbe non conoscere oppure è una materia golosa che lascia intuire un dolce segreto in quel mistero? Il nero così cupo con quelle ferite che sembrano rilasciare fluidi potrebbe far immaginare scenari terrificanti ma …. esiste la possibilità che tutto si capovolga nel suo affascinate contrario. Chissà!
Sveliamo subito: è un’immagine di Antonio Biasiucci, un autore della ”Grande fotografia italiana” presso Gallerie d’Italia – Torino e fa parte della serie ‘Magma’ che ho visto all’inaugurazione della mostra ‘Arca’ (27 giugno 2024 | 6 gennaio 2025 di quest’anno). Una mostra antologica su Biasiucci. La serie Magma (1987-1991) è il risultato della sua collaborazione con l’Osservatorio Vesuviano, che gli ha permesso di interpretare con lampi potenti l’attività dei vulcani attivi italiani, in cui la colata lavica assume dimensioni fantastiche, epiche. Nessun occhio astratto dunque. Ma la potenza della Natura matrigna, il richiamo prepotente al forgiarsi della dea terra prima della Storia, capace di scombinare le certezze degli illuministi.
“Ho frequentato i vulcani per dieci anni. Stare a contatto con gli elementi primari della creazione del mondo, tutto questo tempo, insegna a distinguere il fondamentale dall’effimero. Osservato da lì, dal cratere, ogni elemento assume una valenza completamente diversa rispetto al reale. È un lavoro che mi ha permesso la scelta di altri temi che avevo trattato nel corso del tempo. Per il mio lavoro parto sempre da un’esperienza autobiografica, il soggetto fotografato è sempre collegato con la mia vita. È un rapporto che io definisco un distacco apparente. Quel soggetto mi appartiene ma nello stesso tempo normalmente non mi provoca meraviglia. È quanto invece è avvenuto per il lavoro sui vulcani ‘Magma’ dove le eruzioni mi hanno sempre creato meraviglia. La meraviglia che io non ho mai potuto fotografare e quello che portavo a casa era poca cosa rispetto a quello che avevo visto. Le eruzioni sono rimaste qualcosa di perfettamente fotografabile. I soggetti che ho trattato in questi anni sfiorano aspetti molto intimi, anche famigliari, che nascondono sempre un mistero. Da quando ho iniziato con il tema de la ‘scarnificazione’ tendo a svelare questo mistero. Con i vulcani non ci sono mai riuscito. Rimane un’opera dove il mistero è fissato nella creazione. Negli altri lavori mi accorgo di una certa ossessione nel riguardare continuamente il soggetto fotografato.”
Dopo tutti questi mesi passati da quell’incontro ho compreso la ragione per cui la frase “le eruzioni mi hanno sempre creato meraviglia ….”mi aveva colpito. Anch’io, da bambina, ho portato con me quella meraviglia quando nelle serate terse mio padre mi portava nel punto più alto di Aidone – un paese siciliano a settecento metri sul livello del mare – a vedere l’Etna che eruttava. Mi ha sorpreso ricordare ora con tale intensità la meraviglia provata da piccola per lo spettacolo dell’eruzione, seppur vista da molto lontano. Il rosso della lava era l’unico colore nel paesaggio impregnato di notte e di stelle: “…. la meraviglia … che portavo a casa era poca cosa rispetto a quello che avevo visto”. Una meraviglia che Biasiucci fa scaturire e imprime comunque in tutte le sue immagini, scandite da una poetica rara, raffinata dove nel nero prevale la sua invisibile sensibilità.
La meraviglia crea commozione quando il linguaggio fotografico di cui si avvale l’autore diventa arte a tutti gli effetti. Il fotografo afferma: “Prima di cominciare una serie non so mai dove mi porta e cosa può diventare il soggetto che scelgo. Seguo questo metodo di lavoro attraverso domande e risposte continue, in un processo intriso di mistero anche del mio vissuto. Inizio così il mio ‘laboratorio’ che è una condizione psicofisica, dove il confronto con il soggetto scelto diventa esperienza quotidiana. Non devi perdere il filo, i ritorni sono fondamentali, non puoi ripeterti, devi cercare altro puntando alla scoperta o apparizione di una sorta di “inaspettato”. Tutto è rivelazione, tutto è miracolo, la causalità è illusoria.
Lode dunque a Gallerie D’Italia di Torino che ha dedicato ad Antonio Biasiucci un’antologica che svela un’arte commovente, il sapiente uso di un linguaggio che, quando riesce a tendersi con straordinaria forza, restituisce senso e valore alla fotografia.
DIDASCALIA Magma, 1993, courtesy e copyright- Antonio Biasucci dalla mostra ‘Arca’ in Gallerie d’Italia di Torino.
BIOGRAFIA ANTONIO BIASIUCCI
“Il mio approccio alla fotografia è nato dal desiderio di riappropriarmi di un’identità perduta”. La ricerca di Antonio Biasiucci (1961), tra i più interessanti della sua generazione, rivolge l’obiettivo su tematiche di carattere identitario, trattate con la coerenza e il rigore di immagini giocate su un bianco e nero molto contrastato ed espressivo. L’avventura di un ragazzo nato e cresciuto a Dragoni, vicino a Caserta, e trasferitosi a Napoli a 19 anni, si intreccia con l’attività di Antonio Neiwiller (1948-1993), singolare figura di attore, poeta e regista di teatro, vicino a Mario Martone, Toni Servillo, Leo de Berardinis e Renato Carpentieri. La lezione di Neiwiller è fondamentale per il pensiero di Biasiucci, che esordisce con la serie Vapori (1983-1987), una sequenza di immagini legate all’antico rito contadino dell’uccisione del maiale, colto dal punto di vista dell’animale, seguito da Vacche (1987-1991) dove l’obiettivo del fotografo coglie alcuni dettagli della vita di 5 mucche in una piccola stalla.
Biasiucci arriva a realizzare Magma (1987-1991), risultato della collaborazione di Biasiucci con l’Osservatorio Vesuviano. Il rito ritorna con Impasto (1991), dove la cottura del pane assume tratti quasi sacrali, mentre Solfatara (1995) riassume in un’unica immagine l’essenza dello sguardo del fotografo su una natura potente e indomabile. Negli anni Duemila Biasiucci si concentra sui drammi dell’umanità, con un’attitudine antropologica ma più distaccata e meno personale, con cicli dove la dimensione estetica e formale prende il sopravvento, anche grazie alla collaborazione con l’artista Mimmo Paladino, in un interessante dialogo tra disegno e immagine presente nelle serie Molti (2009) e Crani (2023).
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Dal 2015 mi dedico attivamente al progetto ArtPhotò con cui propongo, organizzo e curo eventi legati al mondo della fotografia intesa come linguaggio di comunicazione, espressione d’arte e occasione di dialogo e incontro. La passione verso la fotografia si unisce ad una ventennale esperienza, prima nel marketing L’Oreal e poi in Lavazza come responsabile della comunicazione, di grandi progetti internazionali: dalla nascita della campagna pubblicitaria Paradiso di Lavazza nel 1995 alla progettazione, gestione e divulgazione delle edizioni dei calendari in bianco e nero con i più autorevoli fotografi della scena mondiale fra cui Helmut Newton, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Ellen von Hunwerth, Marino Parisotto, Elliott Erwitt e i più famosi fotografi dell’agenzia Magnum.
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