Un ritratto in bianco e nero immerso in uno spazio come fosse un elemento grafico. Potrebbe far parte degli arredi, degli ornamenti affissi ai muri nonostante lui sia curato, sbarbato, ben pettinato, ben vestito con giacca, camicia, cravatta. Il ritratto dell’uomo – nell’istante in cui è incuriosito, forse sospettoso ad ascoltare qualcuno – è decentrato. In basso un tavolo sul quale si intravedono una porzione di portacenere con dei mozziconi, un pacchetto di sigarette, il lembo di un foglio. Si potrebbe pensare che il vero protagonista sia il cestino a più ripiani appeso alla parete: lucido, di design, funzionale utile a raccogliere in piani separati fogli, cartelline. Che pareti però! Rovinate, sbrecciate, sporche. Tenda e pavimento scuri. Un’onda bianca è il profilo di un letto con una coperta nera che sembra messa apposta per nascondere la sua insignificante silhouette. Un ambiente apparentemente poco accogliente con un uomo apparentemente borghese.
Forse avrete indovinato di chi si tratta! È un autore di grande attualità: William Seward Burroughs. Il suo libro Queer è diventato famoso sui social per il film di Luca Guadagnino presentato al Festival del Cinema di Venezia tra gli applausi, tanti applausi, standing ovation di 10 – ben 10 – minuti! Burroughs è stato scrittore, saggista statunitense, uno degli esponenti più noti della rivolta e della letteratura hipster, in contatto con Jack Kerouac e ad Allen Ginsberg della beat generation scrivendo romanzi come Pasto nudo (anch’esso ispiratore di un acclamato film di Guadagnino lo scorso anno). Beat come ribellione. Beat come battito. Beat come ritmo. Beat come Burroughs.
Ho scovato questa immagine nel libro “Beat Hotel” del fotografo Harold Chapman. Libro che lo rende famoso per il suo lavoro nel decennio a cavallo tra gli anni 50 e 60. Harold Chapman – grazie a John Deakin – si trasferì a Parigi nel 1956 e visse in un albergo sulla Rive Gauche, che divenne noto come “Beat Hotel”. Una topaia gestita da Madame Rachou, una sedicente ex della resistenza francese, che faceva di tutto per riempire le sue 42 camere di gente strana: poeti, artisti, scrittori… Pure Chapman finì per diventare uno dei suoi ospiti. Nella sua stanza si nascondeva sotto ad un mucchio di cappotti per caricare la pellicola nella tank, poi la sciacquava nel lavandino e la stendeva ad sciugare in bagno. Harold Chapman trascorse sette anni nell’hotel!
In quell’hotel al numero 9 di Rue Git Le Coeur, William Seward Burroughs, fresco reduce delle sue avventure sessuali e narcotiche a Tangeri, termina la stesura del manoscritto del suo Pasto Nudo. Allen Ginsberg e Peter Orlovsky si erano trasferiti lì poco prima e con loro Brion Gysin e Gregory Corso. Sarà proprio quest’ultimo a soprannominare quel posto Beat Hotel. È lì che Harold Chapman incontrò e fotografò Burroughs e una miriade di altre persone che sarebbero diventate importanti nel mondo, in particolare nelle arti e nell’editoria. Le foto di Chapman, raccolte in The Beat Hotel, fanno di quel periodo e dei suoi personaggi un racconto lucido e dettagliato. “La fortuna ha dominato ogni aspetto della mia carriera. Incredibile. Non ci si può credere. Io ho solo provato a cercare il miglior punto di vista. Ecco perché mi sono trasferito a Parigi; volevo solo essere nel posto più visivamente interessante. Tutto sembrava accadere solo attorno a me”.
Ma confessiamolo quanti hanno mai visto una foto di Burroughs e quanti hanno letto i suoi libri? Ci voleva Guadagnino a farlo riscoprire e soprattutto a far emergere il lato inquieto di questo personaggio. «Ho letto il libro di William Burroughs quando avevo 17 anni, a Palermo, ero un ragazzo megalomane che voleva costruire mondi col cinema. La vivida immaginazione di questo autore e la connessione profonda tra i due personaggi, osservati senza giudizio, mi ha trasformato per sempre». La grande sfida era proprio lavorare su Burroughs da un punto di vista più ampio, che potesse abbracciare la complessità dello scrittore. Il regista lo spiega così: «Volevamo fare un “Burroughs movie”, volevamo capire il suo mondo, il suo immaginario, nel linguaggio visivo del film ci sono riferimenti a tanti altri libri.
Così come Chapman in un apparente semplice scatto porta l’essenza di William Seward Burroughs — “il drogato omosessuale pecora nera di buona famiglia” — una figura chiave nella letteratura del XX secolo, con una vita e un lavoro ricchi di fascino e controversie. Per una volta non è il ritratto del personaggio a segnare le ferite che ha dentro l’anima: le sue inquietudini, le sue insicurezze, le sue diversità, depravazioni, dipendenze. Sono i muri, la stanza, il pavimento, i mozziconi che denunciano l’esatto opposto di ciò che egli vuol far apparire con la sua immagine quasi integra di figlio di una famiglia appartenente all’alta società americana e da essa mantenuto per quasi tutta la vita. Quanto riesce a svelarci un’apparente innocua fotografia che sembra uscita da un album di famiglia: i taglienti bianchi e neri della nostra vita.
DIDASCALIA @Harold Chapman _ Williams Burroughs, Beat Hotel, Paris 1961
BIOGRAFIA
Harold Chapman (Inghilterra1927-2022)
Degli anni della sua giovinezza, il fotografo britannico Harold Stephen Chapman ha rivelato solo: “sono nato a Deal un sabato mattino alle 9: decennio30 del 26 marzo 1927.” Deal è un tranquillo paese costiero nella contea del Kent nella costa inglese meridionale. In più di circa ottanta anni, ha prodotto diverse opere. La fama di Chapman rimane inestricabilmente collegata, però, al breve lasso di tempo di un decennio. Dalla metà del 1950 agli inizi degli anni ’60 visse in una pensione a Parigi soprannominata “Beat Hotel” Qui Chapman descrisse la vita degli altri inquilini della pensione – tra cui Allen Ginsberg e il suo amante Peter Orlovsky, William S. Burroughs, Gregory Corso, Sinclair Beiles, Brion Gysin, Harold Norse, e altri grandi nomi della poesia e arte della Beat Generation. Nel 1963 il Beat Hotel chiuse i battenti e Harold iniziò a lavorare per il New York Times dove dovette contrastare schiere di photo-editor arrabbiati che volevano sensazionalizzare il consumo di droga dei Beats. “Ho sempre avuto un problema con il modo in cui i giornali hanno scelto di raccontare la mia realtà. Ne discussi con Cartier-Bresson che mi disse di essere sempre onesto con la mia soggettività. Questo è ciò che ho sempre fatto”. Harold Chapman
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Dal 2015 mi dedico attivamente al progetto ArtPhotò con cui propongo, organizzo e curo eventi legati al mondo della fotografia intesa come linguaggio di comunicazione, espressione d’arte e occasione di dialogo e incontro. La passione verso la fotografia si unisce ad una ventennale esperienza, prima nel marketing L’Oreal e poi in Lavazza come responsabile della comunicazione, di grandi progetti internazionali: dalla nascita della campagna pubblicitaria Paradiso di Lavazza nel 1995 alla progettazione, gestione e divulgazione delle edizioni dei calendari in bianco e nero con i più autorevoli fotografi della scena mondiale fra cui Helmut Newton, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Ellen von Hunwerth, Marino Parisotto, Elliott Erwitt e i più famosi fotografi dell’agenzia Magnum.
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