Questa storia inizia a Londra nell’ottobre del 1984. 40 anni fa.

La BBC il 23 ottobre trasmette un documentario di Michael Buerk sulla grave carestia che sta affliggendo l’Etiopia, il documentario sciocca l’Inghilterra, e tra coloro che assistono attoniti alle drammatiche immagini ci sono anche Bob Geldof, cantante dei Boomtown Rats, e la sua fidanzata, la presentatrice televisiva Paula Yates.
Bob vorrebbe fare qualcosa per dare il suo aiuto e scrive un abbozzo di canzone intitolata “It’s my world” e la sottopone ai membri della band in previsione della registrazione di un nuovo album, ma agli altri non piace e la rifiutano. Geldof non si dà per vinto e cambia il titolo con “Do they know it’s Christmas?” (“Loro lo sanno che è Natale?”) pensando che potrebbe essere un buon pezzo natalizio. Ai primi di novembre Bob accompagna la fidanzata Paula ai Tyne Tees Studios di Newcastle upon Tyne, dove lei conduce il programma di musica dal vivo “The Tube”. Tra gli artisti che si esibiscono quella settimana ci sono gli Ultravox, il cui leader, Midge Ure, è un vecchio amico di Geldof.
Raggiuntolo nel camerino dopo l’esibizione, Geldof gli dice che vorrebbe fare qualcosa per aiutare il popolo etiope incidendo un disco per beneficenza. Ure accetta immediatamente di farsi coinvolgere nel progetto, e ambedue sono concordi che la cosa migliore è fare una canzone nuova, invece che una cover che li obbligherebbe a dover pagare dei diritti, ma i tempi sono molto stretti per riuscire a pubblicare il disco per Natale. Geldof si ricorda dell’abbozzo di canzone che aveva scritto e qualche giorno dopo, il 5 novembre, si presenta a casa di Ure.
Ha raccontato lo stesso Midge Ure: «Bob si è presentato a casa mia con una chitarra che sembrava avere trovato in una discarica. Non aveva quasi nessuna corda. Ha iniziato a cantarmi questa cosa… era ovvio che stava inventando mentre andava avanti. Non c’era melodia, nessuna struttura e ogni volta che la cantava, suonava diversamente. Mi ha presentato l’idea per i testi, “È Natale, non c’è bisogno di avere paura”. Il mio contributo principale al testo fu di cambiare la frase “E non ci sarà neve in Etiopia questo Natale”, sostituendo “Etiopia” con “Africa”. Poi abbiamo scritto insieme la sezione centrale».

Mentre Midge Ure si chiude nel suo studio personale per rifinire la canzone e preparare la base, Geldof si attiva per cercare di coinvolgere il maggior numero di artisti inglesi nel progetto. La sua idea è quella di chiedere a Trevor Horn (autore di “Video killed the radio star”) di produrre la canzone. All’epoca Horn è un produttore richiestissimo, avendo prodotto i tre singoli numero uno nel 1984 per i Frankie Goes to Hollywood. Horn è entusiasta dell’idea, ma dice a Geldof che ha bisogno di almeno sei settimane per essere in grado di produrre la canzone, il che ovviamente rende impossibile che il disco sia pronto per Natale.
Ure decide allora di occuparsi della produzione, e insieme al suo tecnico Rick Walton crea la base musicale della canzone, programmando le tastiere e le drum machine, mentre Geldof contatta gli artisti più in vista della scena britannica, che accettano tutti con entusiasmo, tranne tre di cui però Geldof non ha mai voluto fare i nomi (anche se si sa che uno era Morrissey, all’epoca cantante degli Smiths). Alcuni che sono stati interpellati, ma che non sono stati in grado di apparire, hanno però inviato dei messaggi registrati che sono apparsi sul lato B del singolo, inclusi David Bowie e Paul McCartney.
Alla fine gli artisti presenti sono: Paul Young, Boy George, George Michael, Simon Le Bon, Sting, Tony Hadley, Bono, Paul Weller, Glenn Gregory, Marilyn, Adam Clayton, Martin Kemp, Steve Norman, John Keeble, Nick Rhodes, Andy Taylor, Roger Taylor, Chris Cross, Holly Johnson, Martin Ware, Francis Rossi, Rick Parfitt, Jody Whatley, Bananarama, Boomtown Rats e Kool & the Gang.
Le operazioni di incisione avvennero il 25 novembre 1984 tra le 11 della mattina e le 7 di sera!
Nasce così Band Aid, l’incredibile supergruppo misto britannico e irlandese creato per scopi benefici. Le prime tracce ad essere incise quel giorno di novembre furono i cori del supergruppo, in presenza della stampa internazionale. I filmati vennero poi spediti alle redazioni mentre le registrazioni del singolo continuavano. Dopo i cori, Phil Collins incise la sua parte di batteria. Tony Hadley degli Spandau Ballet fu il primo a incidere la sua parte solista, mentre le strofe cantate dagli Status Quo vennero ritenute inutilizzabili e dunque sostituite dal cantato di Paul Weller, Sting e Glenn Gregory. Paul Young dichiarò che le sue strofe erano state scritte da David Bowie, il quale non poteva partecipare di persona ma che contribuì ugualmente al progetto. Boy George arrivò solamente alle 6 del pomeriggio dopo essere stato svegliato al telefono da Bob Geldof che lo mise su un Concorde per farlo arrivare in tempo alle registrazioni della sua parte.
La mattina seguente Geldof apparve al programma radiofonico mattutino di Radio 1 presentato da Mike Read, per promuovere il singolo e promettere che l’intero ricavato delle vendite sarebbe andato in beneficenza, senza tralasciare un singolo penny. Questa dichiarazione portò ad una diatriba col governo inglese, che rifiutava di rinunciare all’IVA derivante dalle vendite del singolo. Geldof si oppose apertamente contro l’allora Primo ministro Margaret Thatcher e, accorgendosi del risentimento dell’intera popolazione inglese, il governo fece un passo indietro donando in beneficenza le tasse ricavate dalle vendite del singolo.
Il singolo viene pubblicato a tempo di record il 3 dicembre 1984, appena una settimana dopo la registrazione, e Radio 1 inizia a trasmettere la canzone ogni ora, mentre normalmente un singolo di punta passa al massimo sette o otto volte in un giorno e superò le aspettative dei produttori divenendo il più venduto del Natale 1984, pensate che superò le vendite di tutti gli album presenti in classifica messi assieme. Divenne il singolo venduto più velocemente della storia in Inghilterra, vendendo in una sola settimana circa un milione di copie. Rimase al primo posto per 5 settimane, con una vendita di più di tre milioni di copie e diventando inoltre il singolo più venduto di tutto i tempi in Inghilterra. Il record è poi stato superato da “Candle in the Wind 1997” di Elton John (il personale tributo alla Principessa Diana).
Nel 1985, sulla scia del successo del singolo Band Aid, Bob Geldof organizzò il concerto benefico Live Aid, il più grande concerto live realizzato a scopi benefici.
Nato grazie a Bob Geldof e a Midge Ure e dalla scia lasciata dal loro primo progetto: il singolo di Natale Do They Know It’s Christmas?
Era il 1985 e il rock e la sua comunità decisero di tentare la carta della maturità, dell’impegno a costruire qualcosa fuori dal palcoscenico, di darsi una ragione di vita che non fosse solo il puro divertimento. Bob Geldof dei Boomtown Rats e Midge Ure degli Ultravox, che lo organizzarono, erano animati da sano entusiasmo, chi aderì lo fece in buona fede, sorretto da ottimi principi, ma non tutto andò nel verso giusto. E non stiamo parlando della musica, ma dei risultati prodotti in termini di ricadute positive per le popolazioni che si intendeva aiutare.
Eppure le esperienze precedenti dovevano mettermi sul chivalà gli organizzatori del Live Aid. A partire da esperienze come quella che porta alla mente il primo dei concerti rock di beneficenza, il Concert for Bangladesh organizzato da Sir George Harrison, che venne rovinato dall’intransigenza degli addetti alle tasse che insistettero per avere il loro tornaconto, nonostante il valore della causa. Le case discografiche avevano rinunciato alle loro royalty, ma sia il governo britannico che quello americano tassarono pesantemente l’evento.
George commentò: “I responsabili della legge e del fisco non ci aiutano”. Jenkins, l’allora Ministro delle finanze britannico, fu irremovibile e rifiutò di ritirare la richiesta d’imposta. “Forse preferite che me ne vada dall’Inghilterra, come praticamente tutte le altre importanti pop star britanniche, portando i miei soldi con me?” disse George. “Questo signore è, naturalmente, a sua totale discrezione” rispose Jenkins.
Assurdo pazzesco incredibile.

Amareggiato da questo atteggiamento ostinato, George pagò personalmente un assegno di un milione di sterline alle autorità fiscali.
Anche con l’album triplo uscito a seguito del Live Aid ebbe dei problemi. I commercianti di dischi lo facevano pagare di più ed intascavano il denaro. L’Unicef riuscì a ricevere un primo assegno di 243.418,50 sterline, i proventi del concerto stesso, ma ci vollero quasi dieci anni per raccogliere il resto dei soldi, che sarebbero stati necessari con urgenza. 10 lunghi anni. Alla faccia dell’urgenza!!
Nel Live Aid, come nel concerto per il Bangladesh, non erano le buone intenzioni a mancare. Era la gestione del fiume di denaro raccolto. Se nel 1970 fu l’ottusità della burocrazia inglese a mettere i bastoni fra le ruote, dopo 15 anni fu la mancanza di un progetto vero e proprio, che fosse altro della mera raccolta finanziaria. Raccolta che andò benissimo, infatti attraverso i concerti gli spettatori sono stati invitati a donare soldi per la causa. Trecento linee telefoniche approntate dalla BBC perché fosse possibile effettuare donazioni tramite carta di credito. Il numero telefonico e un indirizzo a cui inviare assegni ripetuto ogni venti minuti. Dopo quasi sette ore di concerto a Londra Bob Geldof ha controllato quanti soldi fossero stati raccolti, riferendo poi una cifra di circa 1,2 milioni di sterline. Si dice sia apparso deluso dall’importo, dirigendosi verso la postazione di commento radiofonico della BBC. Esaltato ulteriormente dall’esibizione dei Queen che da quel momento definì “assolutamente stupefacente”, Geldof concesse un’intervista, in cui molti ricordano averlo sentito dichiarare “Dateci questi fottuti soldi, la gente sta soffrendo ORA. Dateci i soldi ORA. Datemi i soldi ora”. Dopo tale irruente affermazione, le donazioni sono aumentate al ritmo di 300 sterline al secondo. Nei giorni successivi la stampa ha valutato la raccolta fondi tra i 40 ed i 50 milioni di sterline. Ad oggi viene valutata in 150 milioni di sterline la cifra totale raccolta per merito dei concerti.

Cosa rimase del LIVE AID?
Di questi fondi, purtroppo e non per colpa degli organizzatori, ben pochi vennero usati per combattere la fame in Africa. O meglio, vennero messi a disposizione e vennero spesi in modo tale da non fornire un valido supporto alle popolazioni africane colpite, tant’è che la bambina scelta come simbolo dell’evento, alcuni anni più tardi ebbe ad affermare che, nonostante gli sforzi, tutto era come prima del concerto. Fame e miseria non erano stati minimamente intaccati.
Cosa resta di quell’evento? Le buone intenzioni. L’album triplo, recentemente ristampato. Il dvd del Live Aid. Le immagini di un concerto mai prima pensato, con tante star che cantano tante belle canzoni. Il desiderio e la volontà di aiutare chi soffre. L’impegno. La speranza di cambiare il mondo. Che purtroppo non si cambia con le canzoni. Queste possono solo renderlo un po’ meno brutto, o un po’ più bello, fate voi. Ma nessuno si impegni ad organizzare, oggi, un Atene Aid. Sarebbe un’altra delusione. E di queste, oggi come ieri, non ne abbiamo proprio bisogno.
Quello che rimane è una straordinaria canzone che ad ascoltarla ci fa ancora venire i brividi e le stupende immagini del videoclip, tutti quegli artisti fantasmagorici messi assieme e le fotografie di Steve Hurrell che seppe raccontare le emozioni di quei giorni incredibili.
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Fotografo ritrattista. Venti anni di esperienza nella fotografia di “people” spaziando dal ritratto per celebrity, beauty, adv e mantenendo sempre uno sguardo al reportage sociale.
Ha coordinato il dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design ed è docente di Educazione al linguaggio fotografico presso la Raffles School, Università di design di Milano.
Il suo portfolio comprende lavori autoriali e commerciali per FIAT, Iveco, Lavazza, Chicco, Oréal e la pubblicazione di quattro libri fotografici: “Ecce Femina” (2000), “99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 it/Universiadi 2007”.
Ha curato l’immagine per vari personaggi dello spettacolo, Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, Antonella Elia, Neja, Eiffel65, Marco Berry, Levante …
Negli ultimi anni ha spostato la sua creatività anche alle riprese video, sia come regista che come direttore della fotografia, uno dei suoi lavori più premiati è il videoclip “Alfonso” della cantautrice Levante (oltre otto milioni di visualizzazioni).
Ha diretto il dipartimento di fotografia dello IED di Torino ed è docente di “Educazione al linguaggio fotografico” presso la RM Moda e design di Milano.
Paolo Ranzani è referente artistico 4k in merito al progetto “TORINO MOSAICO” del collettivo “DeadPhotoWorking”, progetto scelto per inaugurare “Luci d’Artista” a Torino.
E’ stato nominato da Giovanni Gastel presidente AFIP Torino.
Nel 2019 il lavoro fotografico sul teatro in carcere è stato ospite di Matera Capitale della Cultura.
Pubblicati e mostre:
“Ecce Femina” (2000),
“99 per Amnesty” (2003),
“La Soglia. Vita, carcere e teatro” (premio reportage Orvieto Prof. Photography Awards 2005),
“Go 4 you/Universiadi 2007” ,
Premio 2005 per il ciack award fotografo di scena
Premio 2007 fotografia creativa TAU VISUAL
Premio 2009 come miglior fotografo creativo editoriale
Ideatore e organizzatore del concorso fotografico internazionale OPEN PICS per il Salone del Libro di Torino – 2004
Dal 2017 scrive “Ap/Punti di vista” una rubrica bimestrale di fotografia sul magazine Torinerò.
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