Si è aperti al nuovo? All’innovazione, al cambiamento, alle nuove sfide? Certamente soprattutto se osserviamo l’Arte e dall’Arte ci attendiamo nuovi stimoli, nuove percezioni. Innovare d’altronde è un’azione da maestro, da grande maestro altrimenti sembra l’infantile tentativo di voler raggiungere nuove dimensioni senza riuscirci.
L’Arte ci insegna che la bravura è fondamentale soprattutto in chi cerca di cogliere le nuove proposte, di proporre al pubblico nuovi stimoli, curiosità, nuove ricerche, indagini. Bisogna essere bravissimi come ad esempio lo è stato Celant che a partire dalla seconda metà degli anni ’60 si è fatto portavoce di uno sconosciuto movimento artistico e si è posto come curatore della prima mostra sull’Arte Povera in controtendenza con quanto si era abituati a vedere in precedenza. Presupposti teorici forti, densi di significato.
L’organizzazione, la comunicazione la scelta degli artisti: un insieme in cui il pubblico deve percepire bravura, contenuti forti, emozioni affinché si apra un dibattito, un incontro e forse anche uno scontro. Ci si mette in gioco e si presenta, si spiega si convince. L’innovazione parte sempre da una storia e l’avanguardia e la controtendenza si deve necessariamente capire, magari non condividere ma necessariamente capire.
E poi se innovazione ci deve essere ebbene che ci sia! nell’insieme di una proposta culturale questa innovazione, come per la biennale d’arte, deve essere armonica comprensibile con una organizzazione impeccabile. E con gli artisti!
La comunicazione è sempre lo strumento per attrarre il pubblico e aiutarlo nella comprensione del programma, degli orari. Con una grafica attraente, una forte visibilità, la possibilità di leggere didascalie, cataloghi, libri, leaflet per avere spiegazioni e approfondimenti. Non per ‘’docere’’ che sarebbe iattanza ma per ‘’movere’’. La regina dei famosi “Rencontres d’ Arles” è certamente un evento che insegna.
Premessa dunque per dire cosa? che l’atteso Festival di Fotografia di Torino non è stato nulla di tutto questo. Ci eravamo apparecchiati a un fragoroso geyser di meraviglia e ottimismo e invece…confesso un deluso dispetto di spettatore. Sì perché a Torino tra il due maggio e il due giugno, chi ha avuto modo di scoprirlo, c’è stato un Festival di Fotografia per il quale era stata realizzata, cito il poco suasorio vocabolo burocratico, ‘’una manifestazione di interesse’’ (e non un confortante e ottocentesco bando) per : “la direzione artistica della manifestazione Fotografia. Festival internazionale di Torino 2023,2024,2025 grazie al protocollo di intesa tra Regione Piemonte, Città di Torino, Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Torino, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Cassa di Risparmio di Torino e Intesa Sanpaolo SPA. Ora potete respirare. Sapete tutto. Il soggetto organizzatore del Festival, per farla svelta, è stato la Fondazione per la Cultura.
Ho acquistato con non languido zelo l’abbonamento da 25 euro per poter vedere tutte le mostre (biglietto che il sito del festival rimanda a Turismo Torino perché da vendere, meschino, non ha nulla). Con il biglietto in mano ho iniziato ad andare in giro con una elevata attesa. L’attesa per un festival nella mia bellissima città, sul linguaggio della fotografia che da sempre mi appassiona, perché son curiosa, triste destino in un tempo di banalità, per le mie competenze di curatrice, nel marketing e nella comunicazione ….insomma perché immaginavo una rete con i fotografi del territorio, con il territorio stesso e anche fuori dal territorio. Per questo ho pazientemente e meticolosamente cabotato cercando di districarmi negli spazi tra “exhibition, exposed talk, screenings e live performance” e tra gli orari dei differenti spazi con aperture e chiusure diverse tra loro. Fortunatamente conosco Torino e quindi non disarmo: prendo l’auto per poter vedere la metà degli eventi che il dispettoso regista ha sistemato lontano dal centro fino al quartiere San Paolo (che sarebbero pedibus calcantibus un’ora…almeno) fino a Rivoli (beh impensabile a piedi) e così via!
“Il Festival è dedicato al tema New Landscapes (traduzione: Nuovi Paesaggi), e propone una riflessione sull’evoluzione odierna del medium fotografico e delle principali sfide e innovazioni del mondo dell’immagine…”. Annunciava e prometteva con pedagogia querula missionaria il vasto programma.
Cosa ho visto? Un insieme disordinato di mostre, video incoerenti tra loro con un titolo, con un sottotitolo e con altri sottotitoli che poco avevano a che vedere con il tema del Festival comunicato in lingua inglese e per di più arricchito di sottotitoli: ‘Exposed’, ‘Landscapes’, ’Expanded’. Qualcuno deve aver sbagliato quartiere! Eccolo qua il mito letale dell’internazionalismo saputamente sciocco! Ideologie e stili variano, si evolvono, maturano. I provinciali restano. Pur essendo in Italia, a Torino, in irrimediabile territorio sabaudo insieme pitagorico, secentesco, garbato, le principali comunicazioni erano con ardito anacronismo anglosassone – inserite in una grafica incomprensibile – solamente in lingua inglese. Qualcuno ha forse confuso il senso e il significato di internazionale pensando che una cultura attenta alle tendenze si conquisti il passaporto semplicemente inventandosi una ecumenopoli linguistica e non con i contenuti.
Tirem innanz! Un terzo del festival è stato realizzato con le collezioni della Gam, del Castello di Rivoli, della Fondazione CRT: immagini già esposte, viste e riviste negli anni. Altro che visioni dinamiche e prismatiche. E meno male che c’erano – seppur lontane dal concetto di innovazione – per restituire almeno valore alla nostra storia di fotografia con i classici e noti nomi di autori italiani tra gli anni 60 e gli anni 90. C’est a dire: Mimmo Jodice, Luigi Ghirri, Luigi Ontani, Paolo Pellion di Persano, Giuseppe Penone, Mario Merz, Giulio Paolini, Aurelio Amendola, Gabriele Basilico, Gianfranco Gorgoni etc… e molti autori internazionalmente molto conosciuti – parte anch’essi della storia della fotografia – che hanno riempito sale di tutto il mondo a partire dagli anni 70: Gilbert& George, Thomas Ruff e Thomas Struth, Hans-Peter Feldmannche, Edward Rusha, Sherrie Levine etc.. una delle grandi avventure incontrare talenti veri, vederli riluccicare senza che neppur troppi fiati li appannino.
Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino chiedo, ingenua, quale delle mostre fa parte ontologicamente del Festival di Torino e mi viene aggettivata quella dal titolo in inglese “When we were old”. Le altre fanno parte della programmazione già in atto alla Sandretto ma disinvoltamente inserite nella brochure di presentazione come “Je vous aime” (19 marzo – 13 ottobre), “What the owl knows” (19 marzo – 2 giugno). Ma il budget della programmazione del Festival immagino sia separato da quello della Sandretto, altrimenti con le programmazioni degli altri proverò anch’io a fare un bel Festival magari a… Bamako!
Guarda caso: un’altra fornicazione temporale alla Fondazione Merz dove il video di “Sacro È” fa parte di una mostra inaugurata… video compreso… il 18 marzo! Che furbetti!
Poi a Palazzo Madama “State of Emergency” di Max Pinckers dal sapore di una “ekhibition”, un progetto documentaristico di finzione, in collaborazione con i veterani Mau Mau e i kenioti sopravvissuti alle atrocità della guerra. Cercando sul catalogo l’”exhibition” dal titolo “Beauty and the Beep” scopro a Gallerie d’Italia che si tratta di un video. Scendo le scale e due scolaresce di giovani liceali che parlano inglese e studiano arte hanno pensato fosse un disturbante intrattenimento nell’attesa del vero film della Mittermeier. Non sapevano tra l’altro– d’altronde sarebbe stato anche difficile capirlo senza spiegazione in sala – che dentro a Gallerie ci fosse un progetto del Festival. Al Polo del ‘900 la descrizione della pseudo mostra As If The World Had No West di Mónica de Miranda è incomprensibile anche per amici scrittori che leggono venti libri al mese: “propone la creazione di nuovi paesaggi attraverso l’indagine delle ecologie nascoste, ma metafisicamente presenti, in Angola, decostruendo le concezioni occidentali della memoria, della storia e della terra”. Qui occorrono le glosse! Se il testo pone dubbi le immagini fanno cadere nel baratro dell’incomprensione.
Una luce è apparsa nelle fotografie di Arianna Arcara, Antonio Ottomanelli, Roselena Ramistella nella mostra “Voci Nascoste” da Camera: un interessante progetto sulle “lingue che resistono”. Non è l’unica luce ma le altre sono nascoste dalla grande ombra.
Giustificare i “Landscapes” che in italiano si dice “Paesaggi” mettendo dentro tutto ciò che si riesce a raccogliere non è costruire un Festival perché come sostiene Francois Hebel – massimo esperto di festival di fotografia – “un evento dura quando è sostenuto dalla comunità e dai fotografi…Un evento fotografico deve avere una base con i fotografi e trovare il suo formato giusto secondo il territorio”. Naturalmente il direttore artistico, che è poi diventato il direttore generale, “Mennu Liaw” è stato selezionato (fonte atti della manifestazione di interesse) grazie a “una proposta che ha fatto emergere la forza di un network internazionale e specializzato, portatore di risorse economiche, nonché una visione sull’analisi dei nuovi percorsi della fotografia contemporanea.” Espatriare giova dunque. Non è stato selezionato perché conosce il territorio, sa relazionarsi con il pubblico italiano oltre che internazionale e perché vuole creare rete prima di tutto qui a Torino con esperti fotografi e grandi capacità artistiche. Un direttore che non firma l’unico materiale di comunicazione esistente cioè un modesto e incomprensibile leaflet, una città che nell’unico cartaceo esistente e reperibile solamente in alcune strutture, non si degna di dare il benvenuto …. se non nella cartella stampa! E poi la bellezza di un festival (vedi Cortona, Arles, Perpignan, Lodi, Savignano etc…) è che apprezzi l’arte e la città, le opere e i luoghi costruendo una geografia che ti consenta di girare a piedi tra venti, trenta, quaranta e più esposizioni senza dover affrontare l’irsuta avventura di tram, pullman e scoprire che gli orari e le giornate di apertura sono tutte diverse tra loro! Non è sufficiente invitare il famoso pedatore Edgar Davids collezionista olandese (chissà perché proprio lui!?) per rendere un Festival di Fotografia innovativo e internazionale. Quando si perdono di vista i contenuti e per rendere le cose ganze si formalizzano dei linguaggi incomprensibili senza una ricerca profonda perché tutto è patinato allora si fa un grande pasticcio. Un’occasione talmente perduta che non è rimasta traccia nemmeno di un catalogo!
Dal 2015 mi dedico attivamente al progetto ArtPhotò con cui propongo, organizzo e curo eventi legati al mondo della fotografia intesa come linguaggio di comunicazione, espressione d’arte e occasione di dialogo e incontro. La passione verso la fotografia si unisce ad una ventennale esperienza, prima nel marketing L’Oreal e poi in Lavazza come responsabile della comunicazione, di grandi progetti internazionali: dalla nascita della campagna pubblicitaria Paradiso di Lavazza nel 1995 alla progettazione, gestione e divulgazione delle edizioni dei calendari in bianco e nero con i più autorevoli fotografi della scena mondiale fra cui Helmut Newton, Ferdinando Scianna, Albert Watson, Ellen von Hunwerth, Marino Parisotto, Elliott Erwitt e i più famosi fotografi dell’agenzia Magnum.
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