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Annemarie Schwarzenbach – Sulla fotografia sociale di una ribelle

di Pino Bertelli

il suo volto fresco era quello di un ragazzo. i suoi fluenti capelli biondo spento, tagliati corti, con la riga, potevano avere un luccichio chiarissimo, non dipendeva soltanto da come la luce cadeva su di loro: avevano la caratteristica che il loro colore poteva cambiare, ravvivarsi o spegnersi. La sua bocca era larga, infantile e grave, le labbra erano un po’ ruvide e avevano la tendenza a screpolarsi, cosa che dava alla sua giovane bocca qualcosa di impacciato e inquietante…. Aveva un carattere quasi infantile, nel quale si mescolavano timidezza e distacco, in un modo aggraziato che ricordava il comportamento di un lieve, prudente e superbo animale selvaggio votato solo alla libertà e alla fuga… E lei? Si vede androgina, esigente, severa. un angelo di botticelli e un’aggressiva Giovanna d’Arco… Dall’immagine non si capiva se fosse un ragazzo o una ragazza, si autoritrae… nelle numerose fotografie che le scattano amici, parenti o sconosciuti, in posa o a sua insaputa, nel corso di tutta la sua vita – dalla nascita alla morte e, forse, oltre – Annemarie, ora ragazzina-maschio, ora marinaio, ora giovane donna in fiore in abito da sera, ora dandy in cravatta, le labbra dipinte col rossetto, ora sposa-ragazzo, magrissima nei calzoni sformati, ora donna segnata, appare sempre inquieta e sfuggente, di rado col sorriso sulle labbra. in tutte le fotografie, per volontà del fotografo o sua, appare irraggiungibile, misteriosa, come un angelo senza sesso, serio e terribile”.

Melania G. Mazzucco

I. Elogio della diversità

Di nessuna Chiesa è la diversità. I limiti, come i maestri, esistono per essere violati. L’amore non è mai innocente, o lo è sempre. Anche quello omosessuale. Una mente superiore è androgina. In ogni cosa è già scritta quella foglia amorosa che diventerà albero o rosa. La malinconia è sconosciuta anche agli spiriti più aristocratici. La tristezza è di tutti, perché la tristezza non sa leggere, come il vento. Solo i “quasi adatti”, i bambini “strani” o i pazzi per amore sanno cosa sia la malinconia. Cercano l’amore in tutta la loro esistenza, senza trovarlo mai. Incapaci come sono di farsi amare per la loro smisurata eccentricità, riescono ad amare tutto ciò che è estremizzato. La loro vita è una poesia della caduta. Antonin Artaud, Sylvia Plath o Annemarie Schwarzenbach… non si sono mai convertiti all’acqua benedetta delle istituzioni e hanno dato scacco matto alla società facendo delle loro vite tormentate anche le loro opere “immorali”.

Annemarie Schwarzenbach è una figura controversa nella cultura europea. Amata da chi non si sofferma sui pregiudizi della sua mai celata omosessualità, odiata o disconosciuta da quella casta intellettuale che ha fatto della professione di pensare una sorta di genocidio dell’intelligenza. Eviteremo di delineare la Schwarzenbach angelo in fuga, angelo devastato o angelo inconsolabile, tantomeno di riconoscere in lei una instabilità emotiva che è alla base della sua autodistruzione. E anche se queste affermazioni fossero “vere”, le rifiutiamo. “A un certo grado di infelicità, ogni franchezza diventa indecente” (E.M. Cioran). L’essere davvero soli significa opporre i propri talenti contro i commedianti dell’irreparabile.

La ragazza dell’alta società di Zurigo era scrittrice, giornalista, viaggiatrice e anche una particolare fotografa. Non crediamo che “la lontananza [dalla famiglia e da tutto] per Annemarie diventa un programma di vita e l’unica possibilità per reagire alla profonda crisi europea” (Areti Georgiadou). La sua erranza, forse, è una reazione, sia ad una soffocante educazione familiare, sia alle difficoltà (non solo borghesi) d’essere capita come donna differente che vive una sessualità speciale. La sua vita va in pezzi, certo. Ma sono le esistenze più sensibili e amorose che non trovano asilo nelle convenzioni sociali del loro tempo. È per l’impossibilità di essere normali che molti cuori in amore scelgono lo strappo dell’eccesso, del manicomio o della morte… non perché sono cattivi o incompresi. Perché il loro volo è più alto, verso la via delle stelle, che porta a quel paese della felicità dove la parola amore vuol dire veramente amore.

Sotto un certo taglio, l’erranza della Schwarzenbach ha molte tracce in comune con l’inquietudine, anche sessuale, di un altro grande viaggiatore/fotografo, Bruce Chatwin (1940-1989). Questi messaggeri della tenerezza spezzata hanno guardato nelle anime degli uomini ma non hanno visto niente. Solo le ceneri della loro disperazione. Ecco perché si sono chiamati fuori dalla famiglia, dalla società o dalla vita, perché non capiscono l’orrore delle guerre, l’odio razziale, la discriminazione sessuale, l’arroganza delle religioni monoteiste… hanno compreso che dietro ogni santo, profeta o uomo politico c’è un demente incapace di piangere i milioni di bambini che muoiono per fame ai quattro venti della terra.

Annotazioni in forma di biografia, necessarie a comprendere meglio la statura intellettuale di Annemarie Schwarzenbach, autrice di opere letterarie, diari di viaggio e libri di fotografia non proprio comuni. La Schwarzenbach nasce bene il 23 maggio 1908, a Zurigo, da una famiglia tra le più ricche della Svizzera. Muore il 15 novembre 1942 nel Sils-Balegia (Svizzera), a 34 anni, per le ferite riportate in una banale caduta dalla bicicletta. Si laurea in storia all’università di Zurigo a 23 anni (la tesi è sulla storia dell’Alta Engadina nel tardo medioevo). Nel 1928 va a Parigi. Frequenta scrittori, pittori, giornalisti e scrive alcuni racconti, anche per vivere. L’attrazione omosessuale è forte, vissuta però con la grazia dei cigni in amore nel giardino del re.

Dal 1931 al 1933 vive a Berlino. Incontra Erika e Klaus Mann, divengono amici, e con Erika anche amanti. Con i Mann condivide non solo gli agi della “bella società”, l’uso della morfina, ma anche l’attività antinazista. Infatti, quando Hitler sale al potere i Mann e la Schwarzenbach lasciano la Germania. L’“agguerrita rivoluzionaria e comunista” (Erika Mann) dal viso triste, inizia a fare fotografie — non proprio — di viaggio. Dapprima in Spagna (con la fotografa Marianne Feilchenfeldt-Breslauer) poi per sette mesi viaggia in Asia (Anatolia, Siria, Libano, Iraq, Persia, Palestina). È affascinata per i resti della civiltà mediorientale profanata, saccheggiata, e vede in quei popoli una semplicità, una purezza di vita arcaica che forse non era già più così. Per contrasti profondi con la propria famiglia, specie con la madre, non solo riguardo a gelosie e opinioni politiche differenti tra gli Schwarzenbach (che avevano simpatie filonaziste) e i Mann, Annemarie attua il primo tentativo di suicidio.

Nel 1935 incontra il diplomatico francese Achille-Marie (Claude) Clarac a Teheran e lo sposa. La cosa non funziona. Dopo pochi mesi si lasciano. Torna in Europa per cercare di disintossicarsi. I rapporti con la madre si rompono. Il suo equilibrio psicofisico crolla. Lo psichiatra Ludwig Binswanger la definisce affetta da una forma di “schizofrenia”. Ha una relazione tempestosa con la baronessa Margareth von Opel che insegue fino in America, continua a fare uso massiccio di droghe.

La delicatezza del suo animo e il furore dei suoi dis/amori estremi la portano ad entrare ed uscire dalle case di cura.

La Schwarzenbach scopre il fotogiornalismo. Nel 1937, insieme l’amica Barbara Hamilton-Wright, sono negli Stati Uniti per fare una sorta di fotoreportage sulla “grande depressione” scoppiata nel ’29. Visitano New York, Washington, le zone carbonifere di Pittsburgh, le cartiere e le fattorie del Maine, la desolazione, la miseria profonda degli stati contadini del Sud. Le due donne incontrano sindacalisti, operai, braccianti, disoccupati… parlano con le famiglie affamate, si mescolano alle lotte operaie… i loro lavori sono pubblicati, con difficoltà, su riviste e giornali svizzeri ed hanno anche una qualche eco. La “ragazza di buona famiglia” ha dimostrato di saper fare non solo la giornalista ma si è avvicinata (con buoni meriti) anche alla fotografia sociale.
Torna in Europa (Scandinavia, Russia). Non riesce a smettere con la droga. I ricoveri in case specializzate sono sempre più frequenti. Nel 1939 esce il suo romanzo utopico La valle felice. Scoppia la seconda guerra mondiale e la trova in Afghanistan, con la fotografa Ella Maillart. Hanno viaggiato in automobile per tre mesi. Sono passate per l’Italia, la Yugoslavia, la Bulgaria, la Turchia e la Persia. Dopo lunghe discussioni, contrasti e incomprensioni, oltre che forti momenti d’amore, le amiche si separano. La Schwarzenbach arriva a Bombay, poi ancora in Europa per consegnare il materiale sull’Afghanistan all’“Emergency rescue committee” e riparte per gli Stati Uniti per affiancarsi con i fratelli Mann, ai comitati di opposizione al nazismo. Nel 1940 muore il padre. Lei resta in America, non va al funerale. Il rapporto con Margareth von Opel si fa cruento, una notte cerca di strangolarla e tenta di nuovo il suicidio. La internano in un manicomio (Belleuvue Hospital). Dopo qualche tempo l’autorizzano ad uscire dalla clinica soltanto dopo la promessa di abbandonare il suolo degli Stati Uniti. (Nel frattempo aveva intrapreso una relazione con la scrittrice Carson McCullers, che le dedicherà il suo libro più importante,

“Riflessi in un occhio d’oro”, 1941, un testo di riferimento della cultura gay)(1). La ragazza degli scandali fa ritorno in Svizzera. La madre è turbata (forse) dalla sua presenza nei club (un po’ speciali) di alto lignaggio che frequenta, e la spinge a fare un viaggio in Africa. Lei cerca di raggiungere le forze di libera- zione di De Gaulle. Non ci riesce. Nel giugno 1942 s’incontra con il marito a Tétouan (Marocco), ha l’intenzione di chiedere il divorzio. Decidono di resta- re ancora insieme. La Schwarzenbach è di nuovo in Svizzera, passa momenti difficili, in completo mutismo e stati di semincoscienza.

Il 7 settembre 1942 cade di bicicletta a Sils, in Engadina, riporta un trauma cranico… la madre l’affida a due infermiere non permette a nessuno di visitarla… Annemarie muore il 15 novembre 1942, sola, insieme al suo male di vivere.

La scoperta delle sue opere è tardiva.(2) La sua forza espressiva più autentica si riversa nell’autobiografia o nei diari di bordo. Le fotografie mostrano una visione amara, anche salace, fortemente legata all’iconoclastia del convenzionale e del conforme. La sua vita in pezzi però non è solo dolore, taglio, frattura col corpo sociale… segna anche una rivolta della donna contro il fascio dei valori dominanti e la ricchezza della sua diversità è lasciata alla bellezza delle anime fragili in lotta per disvelare l’ingiustizia familiare e sociale che governa l’universo degli stolti.

II. Sulla fotografia sociale di una ribelle

La fotografia sociale è contro ogni limbo di consolazione interiore e pubblico successo. È una forma espressiva, talvolta poetica, che si pone contro la simulazione dell’indifferenza. Al pari dello spirito, la fotografia sociale costruisce utopie. Non accetta il dolore se non in piena coscienza. Passa dai margini dell’incomprensibile alla periferia del sublime. Sa che il torto d’ogni ricerca di liberazione radicale dall’ordine delle apparenze, passa da un’estetica dell’incompiuto, più ancora, da un’etica della rivolta, anche della sessualità. Poiché è ebbra di vita, la fotografia sociale, in tutte le sue accezioni, non ha altari. O si è complici della tirannia delle convenzioni o si è ribelli a tutto. La differenza tra stupidità e intelligenza sta nel modo di rifiutare, disobbedire, dissentire dallo spettacolare integrato e dalle banalità quotidiane (dall’impero dei codici) della civiltà dello spettacolo. Nella vita, come nell’arte di vivere tra liberi e uguali, la conquista della felicità passa dal dolore.

Annemarie Schwarzenbach ha lasciato scritti e fotografie (sono quasi 7000 e documentano i suoi viaggi tra il 1933 e 1942)(3) singolari. Le immagini di viaggio e la fotodocumentazione sulla gente povera negli Stati Uniti ai tempi della Depressione(4), esprimono una sensibilità acuta, non curiosa o folcloristica, una lettura del disincanto che potremmo chiamare in “punta di sguardo”. La fotografa lavora sulle linee, sugli sfondi e la figura è vista sempre come parte importante di una quadratura formale anche ricercata. Le immagini per così dire “dell’irrequietezza”, sono più “dolci”, spesso anche troppo partecipate, che tradiscono il momento emozionale. I paesaggi, quanto i ritratti, rientrano comunque dentro un’antropologia dell’immagine “nomade”, non agiografica. Per quanto riguarda la ritrattistica, la distanza della fotografa dal soggetto varia molto e non sembra abbastanza “rapace” nella presa della soggettività, nella violazione o nella cattura dell’accadere davanti alla fotocamera.

Le fotografie sulla strada della miseria americana della Schwarzenbach, che forse si era fatta fotografa per avvicinarsi meglio all’umanità dolente, o anche per cercare di allontanarsi da un mondo di dèi (non solo familiari) che non la comprendevano… si leggono come conoscenza ridestata, immagini di affronto e vergogna per una società che si auto/definisce la più “libera” della terra.

Le fotografie dei negri, dei disoccupati, delle donne operaie sono intrecciate tra loro da una sorta di marchio, quello di una “pietas laica”, tutta femminile, con la quale la Schwarzenbach si schiera dalla parte dei perdenti e non assolve né giustifica la “ragione” dei loro oppressori.

A leggere gli scritti e ad entrare in questa fotografia dell’aurora o della malinconia — che crediamo avere una stanza tutta per sé nella storiografia sociale — a scorrere le immagini che supportano i suoi percorsi, vediamo il rapporto di vicinanza, di fratellanza, di forte condivisione della fotografa con le persone che incontra nelle cartiere del Maine, nei campi di cotone dell’Alabama, nei quartieri sporchi di Pittsburgh… i corpi dei taglialegna e dei minatori del Tennessee, i disoccupati e i protagonisti delle lotte sindacali, le operaie delle fabbriche di Jeans, il quartiere senza luce di Knoxville… sono depositari di una disumanità dominante, figlia di un mondo devastato dall’ingiustizia sociale. Come sempre l’inquadratura è pulita, quasi icastica, a volte anche ironica (i manichini nelle vetrine), tuttavia il soggetto è sempre visto come un confine da non violare (la donna nera sulle scale della sua casa).

In queste fotografie delle popolazioni impoverite del “grande paese”, delle quali era già in corso una raccolta archivistica del governo Roosevelt (Fsa) — e tra i fotografi chiamati a compiere l’impresa c’erano maestri della bellezza sfigurata dei poveri tra i poveri (non sospetta) come Walker Evans, Ben Shahn o Dorothea Lange — non è difficile comprendere la profonda sensibilità della Schwarzenbach verso la parte più disagiata della società americana. Le sue immagini sono abbastanza “ingenue”, prese quasi a “volo d’aquila”, cioè si vede bene l’occasionalità espressiva, e una certa attenzione formale che a volte lasciano il soggetto in secondo piano. Si avverte inoltre l’enorme rispetto per la persona ritrattata e il superamento del fatto di cronaca che si trascolora in documento. La trattazione figurativa è spoglia, attenta all’insieme del racconto, più che ad isolare l’uomo dal suo ambiente. La figura umana è parte di una storia più larga che si lascia attraversare dalla gioia della conoscenza, senza mai perdere la dignità che le è propria. È una sorta di fotografia di denuncia, di visione altra della “sogno americano”.

Ci passano negli occhi le immagini della Schwarzenbach. Un operaio nero a Cincinnati (Ohio, 1938), minatori disoccupati a Scotts Run (West Virginia, 1937), due bambini neri e una bambina bianca (Georgia, 1937), un uomo e una donna seduti sulla veranda della loro casa di legno (Knoxville, Tennessee, 1937)… lapidi di cimiteri, manifesti del cinema, porti abbandonati, prigioni… le sue fotografie di documentazione sociale tagliano via l’aggressività o l’“io” del fotografo e danno “la parola a chi è privo di diritti e di beni e, spesso, privo di voce” (Roger Perret). In qualche modo le immagini della Schwarzenbach anticipano il grande libro fotografico di un altro svizzero, Robert Frank, Gli americani(5). La struttura narrativa della Schwarzenbach è però più frammentaria, meno eversiva dello sguardo di Frank. Le immagini di Frank uniscono in sé la qualità dell’antropologo con la visione dell’artista. La scrittura documentale della Schwarzenbach riesce tuttavia ad inquadrare bene le radici dell’ottimismo americano e dell’arroganza del potere.

Per meglio comprendere la fotografia della Schwarzenbach, non è male vedere le immagini che altri hanno scattato a lei. Rigettiamo l’idolatria o il mito di vedere la Schwarzenbach come una figura della dissoluzione o fata di seduzioni oscene… non c’è fragilità nei ritratti fatti alla Schwarzenbach, c’è discrezione. Appartenenza ad un mondo diverso, particolare o libertario, senza clamore. Dove l’amore non contempla né regole, né confini. Importante è amare ed essere amati. E non importa quale sesso incontri in amore. “Ama e fa’ quello che vuoi”, Agostino, il berbero, diceva.

La bellezza androgina della Schwarzenbach o il suo vissuto di lesbica o semplicemente di diversa… sono al fondo della malinconia aurorale che esce dal suo fare-fotografia. La sue fotoscritture contengono la dolcezza dell’istante e l’amoralità della ragione dominante. C’è anche stupore nel suo lavoro. Forse troppo. Specie quando si lascia andare nell’iconografia del viaggio. La speranza del suo sguardo rompe la condizione imposta dall’evento e la malinconia che emerge dall’immagine si apre su spazi sconfinati della poesia dove angeli e banditi giocano a dadi sul culo della storia. La visione radicale, epica (dentro e fuori la fotografia) della Schwarzenbach, si accosta, contrariamente a quanto viene scritto di lei, ad una forte personalità, tenera e risoluta al contempo, dispersa (o donata) in una filosofia del disagio e del rifiuto che si scaglia contro i regni dell’oppressione e si affranca a tutto ciò che sopravvive o emerge dal margine dell’umanità.

Nei cimiteri del libero spirito riposano i princìpi, le morali e le regole di “buona condotta”. La “signora” Schwarzenbach vestiva abiti maschili, portava i capelli tagliati corti, esprimeva una regalità del volto e del corpo che la proiettavano fuori dal terrore di morire di “normalità”… allo spettacolo dei sofà preferiva l’utopia dell’amore e farsi marchiare come “peccatrice” che brucia quello che divora. Il suo sguardo “basso”, delicato, quasi diafano… eretto, forse, a protezione di un’anima ferita a morte… discosto da entusiasmi ed angosce, non significava affatto esporre un “fascino ambiguo” o perverso… l’ambiguità o la perversione non c’entrano, fanno parte di persone destinate alle “banalità dell’ordinario”. Le droghe, l’alcool, gli amori impossibili o infelici sono percorsi di vite maledette o forse di straordinarie esistenze mai realmente comprese ed accettate dalla cultura d’ogni tempo. I geni, come i santi e le puttane muoiono della stessa follia. Le puttane però conoscono solo le lacrime dei marciapiedi. I santi s’impiccano nell’estasi del falso. I geni scompaiono per aver guardato il cielo e non aver visto nulla, là dove le stelle non muoiono mai.

Note:

  1. Dal libro della McCullers è stato tratto il film di John Huston, Riflessi in un occhio d’oro (Reflections in a Golden Eye, 1967), interpretato da Marlon Brando e Elizabeth Taylor
  2. Annemarie Schwarzenbach, La valle felice, Luciana Tufani Editrice, 1998; Morte in Persia, Edizioni E/o, 1998; La via per Kabul, Il Saggiatore, 2002; Oltre New York. Reportage e Fotografie 1936-1938, Il Saggiatore, 2004. Per comprendere a fondo la statura poetica di Annemarie Schwarzenbach, non solo come donna straordinaria ma anche come testimone di una fotografia sociale sempre meno praticata o svenduta ai mercanti d’idiozie, è importante leggere le opere di Areti Georgiadou, La vita in pezzi. Una biografia di Annemarie Schwarzenbach, Luciana Tufani Editrice, Ferrara, 1998 e Melania G. Mazzucco, Lei così amata, Rizzoli, 2000
  3. Annemarie Schwarzenbach, Dalla parte dell’ombra, Il saggiatore, 2001
  4. Annemarie Schwarzenbach, Oltre New York. Reportage e Fotografie 1936-1938, Il Saggiatore, 2004
  5. Robert Frank, Gli americani, Contrasto, 2008

Articolo tratto da “La fotografia ribelle” di Pino Bertelli

Edito da NdA press © 2017 

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