“Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui,
mediato dalle immagini… Lo spettacolo è la principale produzione della società attuale…
Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo.
È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria delle condizioni di esistenza”.Guy Debord
I. Commentari sul piombo, il pane, le rose e la fotografia
Merda! Porcaccia d’una miseria! Fine di tutti gli idoli affogati nel catrame bollente! Possibile che nel crepuscolo della civiltà parassitaria, il sistema del dominio spettacolare e il senso totale della fotografia sia ancora quello consolidato o ammaestrato nei premi, workshop, letture di portfoli, stage, chiacchere festivaliere… che gli stolti della fotografia professionale e amatoriale prendono sul serio? Tutti (o quasi) si adeguano allo spettacolo della fotografia per farsi riconoscere o incensare… la genealogia del fanatismo offusca i cortigiani del successo e la plebe dei fotografi (anche di grido) è parte integrante della ragione mercantile (non solo) della fotografia.
Tra la fotografia e la verità o la bellezza, l’incompatibilità è totale. “La consumazione alienata diviene per i domesticati un dovere che completa quello della produzione alienata” (Gianni-Emilio Simonetti)1 e rende sopportabile il dispotismo dei dominanti sui domesticati. Del resto, il pane, le rose, il piombo e la fotografia (cinema, fumetti, volantini, giornali, libri ed altre cose più insolenti) sono state espressioni di una rivolta generazionale che a partire dal Maggio ’68 si è conclusa (malamente, forse) negli ultimi colpi di coda nel 1977. L’utopia qui era più della vita e il sacrificio dei desideri individuali a vantaggio del rovesciamento di un mondo rovesciato, cercava di porre rimedio a una filosofia della miseria e alla riappropriazione (o scoperta) di sé… il colonialismo, il fascismo, il comunismo, l’imperialismo erano (e sono) il male dell’umanità e gli esclusi, i reprobi e gli oppressi cercavano quelle riserve di utopia per dare inizio alla distruzione di tutti i muri del conformismo… il passaggio dalla soggezione prolungata all’insurrezione dell’intelligenza. Ma le sconfitte popolari sono ferite che restano aperte sugli annali della storia e prima o poi presentano il conto all’onnipotenza del corpo politico.
Là dove i politici, i preti, i sociologi dettavano legge, ora comandano gli economisti, i banchieri, i militari… il nuovo assetto sociale della modernità si consolida fra comunismo e capitalismo, “che unisce in sé il peggio dei due sistemi totalitari, e segna già la via e il divenire del mondo, definisce anche quali siano le fondamenta del nuovo totalitarismo, che sta impunemente affermandosi dappertutto. Libertà totale di espropriazione per i ricchi, e schiavitù totale per i poveri” (Gianfranco Sanguinetti)2. L’efferatezza continua. E al fondo di ogni ordine ci sono i mezzi di comunicazione di massa che amalgamano caste, classi, religioni e perfino razze nel verminaio della politica-spettacolo, e insistono sul dire tutto per non affermare niente. La logica mercatale prospera su cumuli di cadaveri ed è ormai possibile appoggiare governi criminali in cambio di uno smartphone… sotto il cappotto di un politico, un banchiere, un generale o di un mafioso… troviamo spesso un assassino in formato grande.
La fotografia dominante oscilla tra l’apparenza e il nulla, tra la forma ingannevole del bello e la sua assenza… la noia architetturale/fotografica dell’universo convenuto figura una fatalità senza splendore e solo gli stupidi credono ancora nell’ipocrisia che la fotografia si fa per le comparsate televisive e non in difesa della verità calpestata sulla punta dei fucili o nella farsa delle merci… eppure la funzione primaria della fotografia non è quella di vedere, né di piangere, ma andare a fondo della visione radicale del vivere quotidiano e rivelare attraverso il disinganno, l’impronta del vaniloquio… i deliri di grandezza sono vasti… superano la megalomania dei palazzi, dei conventi e dell’industria che alleva i fotografi nella seminfermità mentale… senza sapere mai che avere cognizione della fotografia significa criticare alla radice i fabbricatori di dèi… nella gerarchia delle menzogne la fotografia occupa il primo posto e insieme al cinema, la carta stampata, la televisione, la telefonia, i social network… portano gli adepti del consenso generalizzato all’inutilità di avere una qualsiasi corona, foss’anche quella del babbeo finito sulla croce per un eccesso di narcisismo! L’insignificanza diventa spettacolo e si gloria dell’eccellenza della propria banalità, che è la forma ideale di tutti i begli ingegni deposti sul sagrato dell’utilitarismo.
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Pino Bertelli è nato in una città-fabbrica della Toscana, tra Il mio corpo ti scalderà e Roma città aperta. Dottore in niente, fotografo di strada, film-maker, critico di cinema e fotografia. I suoi lavori sono affabulati su tematiche della diversità, dell’emarginazione, dell’accoglienza, della migrazione, della libertà, dell’amore dell’uomo per l’uomo come utopia possibile. È uno dei punti centrali della critica radicale neo-situazionista italiana.
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