
Inizio con una contraddizione.
Se c’è una cosa oggettiva è che l’oggettivo non esiste e ci ho messo 21 anni a capirlo.
E l’ho capito dopo aver ascoltato il racconto di un docente di Antropologia dell’Università degli Studi di Torino, davanti a centinaia di matricole, il prof stava raccontando le vicissitudini del suo viaggio in Africa come etnologo.
La storia tratta del rito di passaggio dall’adolescenza all’adultità in uno dei villaggi da lui visitati; i ragazzini, per diventare uomini adulti, devono effettuare pratiche sessuali agli anziani.
Detta così lascia tutti sconvolti.



Anche il docente, come prima reazione, ha subito stupore, inquietudine e tante domande si sono affollate nella testa. Stiamo parlando di pedofilia? È una pratica culturale che deve essere fermata? Che danni apporta realmente alla psiche dei ragazzini che la praticano?
Queste domande non hanno mai trovato una risposta concreta, e tutt’ora rimangono una questione aperta.
L’unica domanda che ha trovato risposta è stata quella che il docente ha rivolto a se stesso ovvero, “Concentrandomi sulla cultura del popolo di questo villaggio ed estraniandomi dalle complesse dinamiche della cultura da cui proveniamo noi che crediamo di essere più saggi, che cosa è giusto pensare di questo rito? Possiamo pensare in modo oggettivo?”
Nella nostra società una pratica simile sarebbe categorizzata come deviante e punibile con il capo d’accusa di pedofilia.
Quello che conta è lo studio dei riti tribali e l’intento di avere un occhio oggettivo in merito, questo per poter neutralizzare la nostra soggettività, ed è necessario mettere in discussione i nostri valori, pensieri, le idee e credenze che ci portiamo dietro. Prima di giudicare occorre conoscere e conoscendo saltano tutti i preconcetti.
Però.
L’etnologo ammise che prima di quel viaggio era convinto della devianza di certi atti, una volta tornato non aveva più idee ferme e certe in merito. Restare oggettivi forse non appartiene alla nostra natura.
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Qualcosa di simile, nel mio piccolo, è successo quando ho progettato e redatto la mia tesi di laurea.



Ne “Gli Altri”, così si chiama il titolo della mia dissertazione fotografica, ho preso in analisi la quotidianità di persone distanti da me, dell’Altro, di chi non vive la vita secondo i miei universi simbolici: quattro soggetti che hanno deciso di abbracciare vite esattamente all’opposto della mia…
E per fare tutto questo ho documentato il quotidiano di quattro persone che hanno scelto di vivere distanti dalla città, dal traffico, dal mondo che li circonda e dagli anni che caratterizzano la nostra società.
Davide, Cecile, Paolo e Renzo sono i protagonisti del mio libro e ognuno di loro, con il tempo, ha sviluppato una visione personale della vita che vede congiungersi elementi come la natura, la solitudine e che mette in discussione la velocità e la frenesia tipica della nostra epoca.
Il progetto si sviluppa in 4 capitoli, uno per soggetto introdotti da una breve biografia di questi e, per contestualizzare ogni fotografia, le immagini sono associate all’orario di scatto.
Credo infatti che l’ora fosse fondamentale a far comprendere in che modo si scandisca una giornata tipica dei quattro soggetti presi in analisi.
Per effettuare gli scatti ho negoziato il mio ruolo, inserendomi totalmente nel quotidiano di Davide, Cecile, Paolo e Renzo… quindi mi sono allontanato dalla città, ho attraversato boschi e valli per entrare nelle loro case, nel loro passato e nel loro presente.
Ho scoperto un invidiabile senso di pace e di tranquillità nel quotidiano di queste persone, ho scoperto che non si preoccupano di che cosa pensi la gente di loro, perché la gente è troppo lontana dai luoghi in cui abitano.
La gente è lontana.

Nascosti tra i boschi, o in cima ad una piccola montagna rocciosa, dopo una stretta via sterrata e per nulla trafficata troviamo un mondo dimenticato, fatto di piante e animali, di colori e di musica, di campi e di terra.
Avete presente la cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze?
Pensate a quanto sia difficile vedere questi impressionanti corpi architettonici a causa degli edifici che ne coprono la vista, la cattedrale si nasconde fino all’ultimo, fino a quando non facciamo un passo in Piazza del Duomo non riusciamo a scorgerne la sublime bellezza…insomma, si mostra solo a chi ha la volontà di avvicinarsi.
Così io mi sono avvicinato, gli alberi ostruivano la vista, le colline erano alte ed ero in controluce, ma era necessario avvicinarmi di più.
Con le mie immagini volevo rappresentare la distanza, la diversità, il trovarmi agli antipodi rispetto ai quattro soggetti del mio progetto, e così alla fine ho fatto talmente tanti passi verso di loro che mi sono avvicinato tanto da avere dubbi sul dover tornare indietro.

Volevo raccontare “degli Altri”, ma per farlo ho guardato così a lungo nel profondo delle loro esistenze che ci sono finito dentro, e più che raccontare la distanza tra me e gli altri, forse ho raccontato la nostra vicinanza.
Ed è qui che nel progettare è emersa una grande criticità, la stessa che è diventata anche un importante punto di forza: la soggettività.
Perché per quanto l’obiettivo di partenza fosse un’analisi oggettiva con l’occhio da “etnologo” ovvero, da osservatore esterno ed estraniato dal contesto, durante lo sviluppo del progetto qualcosa è andato diversamente.
Sono arrivati i dubbi.
Anche se la regola era limitarmi a parlare di loro osservandoli con attenzione e distacco, le nostre soggettività si sono incontrate e si è creato un rapporto di interdipendenza che ha messo in discussione i miei valori e che mi ha fatto sentire vicino alla vita di Davide, di Mirtillo, di Cecile e Lorenzo.
Insomma, dopo 21 anni ho scoperto che un occhio davvero oggettivo su quello che ci circonda non può esistere perché, al di sopra di tutto, delle leggi, delle convenzioni sociali, delle teorie e delle dimostrazioni c’è un elemento imprescindibile: la nostra soggettività.
E la nostra soggettività è indefinibile, influenzabile e, soprattutto, non è un elemento di cui possiamo fare a meno qualsiasi sia la ricerca, il progetto o il contesto in cui la inseriamo.
Gli ALTRI siamo NOI visti da un’altra angolazione.

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