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Alfred Stieglitz. Sulla fotografia dandy

di Pino Bertelli

“Entriamo in un’epoca di forme spappolate, di creazioni alla rovescia. Chiunque potrà prosperarvi. Ma queste sono facili previsioni. La barbarie è accessibile a chiunque: basta prendervi gusto. Ci apprestiamo allegramente a disfare i secoli”.

E. M. Cioran

1. Della fotografia senza museo

La storia della fotografia è storia di prostituzioni, disinganni e ribellioni… docile al servizio di farse mercantili e illusioni opposte al suo genio, la fotografia ha subito le farneticazioni dell’arte prona a tutti i regimi. Al tempo di Spartaco tutti cercavano di scrivere correttamente, ma tutti si capivano perfettamente nella loro lingua… oggi il fotografo vuole avere un suo proprio stile, ma non giunge a questo perché è parte del linguaggio della macchina che usa come vuole l’industria dello spettacolo… solo attraverso la decostruzione (o détournement) del linguaggio e della poetica che ne consegue, possiamo forgiare una lingua alla propria compiutezza e rovesciare le stigmate della rassegnazione.

Nella civiltà dello spettacolo i media esercitano un magistero decisivo sui comportamenti, i costumi, l’immaginario collettivo… in una società dove banche, mafiosi, politici, sindacati, polizia, giornalisti, cuochi, cantanti, calciatori, attori, registi, fotografi, giocattolai perfino… l’ambizione ad apparire è un comandamento che fa di colui che vi si dedica (o lo subisce) un demente in potenza. A giudicarla dagli imbecilli che ha prodotto, la nostra epoca sarà stata tutto, tranne che intelligente, diceva. I despoti dell’economia-politica dispensano sicurezze, garanzie e felicità a colpi di bombe… i migranti che fuggono dai paesi in guerra o dalla fame li danno in pasto ai pesci. Quelli che raggiungono la terra promessa sono destinati alle fogne metropolitane o alla galera. Qualcuno viene ammazzato, così, tanto per fare un po’ di cronaca nera nell’ora di punta dei telegiornali. La giustizia, la libertà, la bellezza si possono manifestare soltanto nel vuoto delle ideologie e delle fedi.

Va detto. Al tavolo dell’Onu siedono i saltimbanchi, gli istrioni o gli assassini in formato grande (i maggiori produttori di armi)… il papa fa lo scemo, benedice tutti, anche i bambini saltati in aria sulle mine di marca italiana. E basta sfogliare le scemenze sulla cura della casa comune che scrive in Laudato sì(1), per comprendere che siamo di fronte a un ciarlatano da operetta: “Il piano di Dio include la creazione dell’umanità. Dopo la creazione dell’uomo e della donna, si dice che Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. La Bibbia insegna che ogni essere umano è creato per amore, fatto a immagine e somiglianza di Dio”. C’è di che vomitare la bile di secoli di violenze, colonizzazioni, genocidi… tutti benedetti dalla Santa Romana Chiesa… del resto, un mondo senza papi sarebbe altrettanto ridicolo di un patibolo senza boia.

La fotografia, come tutti sanno, perfino i professori che la insegnano, gli storici che la incensano o gli stupidi che credono di farla per cambiare il mondo… la fotografia non serve a nulla se non dice qualcosa su qualcosa e possibilmente contro qualcuno. L’abbiamo scritto fino alla nausea: con la fotografia non si fanno le rivoluzioni… la rivoluzione si fa con la rivoluzione… tuttavia con la fotografia si può diventare uomini e donne migliori. Per salvarci dal consenso e dal successo della fotografia, basta praticare quotidianamente il massacro dell’indifferenza e fare di un’odissea del rancore il debutto dei nostri insulti contro la società consumerista. Gli anarchici non saranno mai lodati abbastanza per aver denunciato i misfatti della proprietà e attentato alla radice i pilastri dell’ordine costituito.

Gli annali della fotografia annoverano grandi impostori e pochi eretici dell’eresia… l’americano Alfred Stieglitz (che non appartiene certo alla bandiglia dei secondi), ritenuto con Edward Steichen una delle massime figure della storiografia fotografica, è stato il condottiero della separazione tra reportage e fotografia d’arte, dicono… vero niente o in parte. Stieglitz e Steichen erano gli esponenti di una fotografia dandy che andava bene a tutti, poeti e mercanti, sociologi e galleristi, servi e padroni… l’immagine letteraria di Stieglitz si fondeva con quella estetizzante di Steichen e invece di liberare i sogni dalla realtà, non solo fotografica, promettevano la felicità con una fotografia erudita e sterile(2). Ci vuole uno stile per fotografare e non fotografare in cerca di uno stile.

Stieglitz nasce bene, in una famiglia ebraica di origine tedesca, a Hoboken (vi- cino New York) il 1° gennaio 1864, muore nella “grande mela” il 13 luglio 1946. Nel 1871 gli Stieglitz si trasferiscono a New York, in una grande casa vicino al Central Park. Nel 1882 il padre vende l’azienda e rientra in Germania. Stieglitz studia ingegneria meccanica a Berlino e scatta le prime fotografie in giro per l’Europa. Nel 1884 vince il primo premio al concorso organizzato dalla rivista “Amateur Photographer”. Nel 1890 è di nuovo a New York, qui mette in piedi un laboratorio di fotoincisione (Photochrome Engraving Company, 1893-1896) e stampa il giornale “American Amateur Photographer”. Nel 1897 fonda “Camera Notes”, bollettino della Camera Club di New York (dove espone per la prima volta nel 1899).

Nel 1902 Stieglitz raduna intorno a sé diversi fotografi e forma il gruppo dei “Secessionisti”… si accedeva all’associazione Photo-Secession solo per invito… la presunta “regalità” della Magnum Photos non è poi così distante da questi “artisti” compresi molto dalla crema intellettuale americana. Non è un caso se Henri Cartier-Bresson, uno dei fondatori della Magnum, prese le distanze dall’agenzia e con quel tanto di grazia e di anarchia che gli era propria, disse che lo spirito dei fondatori era stato tradito, e che “l’organizzazione è ormai dedita a una fotografia artificiosa, più creativa, prestigiosa e di lusso… con tanti cari saluti, le mie più vive congratulazioni e condoglianze. Vostro Henri Cartier-Bresson”(3). Per Stieglitz era importante emulare la resa visiva della pittura, per Cartier-Bresson cogliere l’eternità in un attimo. La fotografia è difficile, diceva. Il sofista lavora per lo stile del bello. Il giusto lo distrugge nella finitezza della bellezza.

Gli artisti della Photo-Secession sono affascinati dal pittorialismo europeo e non si accorgono delle misere condizioni degli immigrati nei bassifondi di New York… nel contempo i fotografi Jacob Riis e Lewis W. Hine si aggirano nelle periferie della grande città e figurano una geografia della tenerezza che trionfa sulla violenza istituzionale e sui fallimenti della libertà… la loro cartografia di sopravvivenza mostra che l’unico ordine di grandezza di una politica e una giustizia da macellai, è quello destinato al fallimento. Le loro fotografie esprimono una vita quotidiana senza identità, dove ciò che avviene e vive si paga con ciò che si piega o si annulla. La genuflessione, insieme al paradiso, è la tomba di un popolo. La ribellione, la fine di un’inedia coltivata nell’obbedienza o nell’arte di lasciarsi morire di fame.

Nel 1903 Stieglitz dà vita alla rivista “Camera Work” (che pubblica fino al 1917)… insieme a Steichen aprono la Galleria 291di Fifth Avenue (New York)… resterà un punto d’incontro della cultura fotografica americana per 12 anni.

Poi è la volta di due spazi culturali, la Intimate Gallery (1925) e la An American Place (1929)… qui Stieglitz ospita fino alla sua scomparsa (1946) ogni forma d’espressione artistica con un certo successo (Cézanne, Matisse, Picasso, Rodin passarono per quelle vetrine). La ricerca fotografica di Stieglitz comunque non si ferma e spazia da “fotografie di strada” — tram trascinati da cavalli, treni fumanti, grattacieli in controluce, ritratti della moglie Georgia O’Keeffe (una pittrice vicina al “realismo magico” o al “precisionismo” di Charles Sheeler, Charles Demuth o George Ault), la celebre The Steerage (che ha fatto versare fiumi di inchiostro) a immagini di nuvole chiamate Equivalents (equivalenti appunto degli stati d’animo del fotografo) —, senza mai raggiungere la compiutezza estetica/etica da farlo uscire dall’epoca dei salotti.

2. Sulla fotografia dandy

La fotografia di strada (non quella fatta in strada ma quella che fa della strada una costruzione di situazioni) esprime uno stile che denuncia la tragedia e disvela la diversità… la ritrattistica che fuoriesce dalla fotografia di strada diventa la misura di ogni cosa e mostra una maniera, un linguaggio, la conferma di un’etica e di un’estetica che implicano la nascita di nuovi valori. Le immagini diventano grida, ossessioni, rotture… si riappropriano del tempo e dello spazio, più ancora mettono il lettore in una situazione creativa dalla quale si esce complici, spettatori o ribelli. Non ci sono stati rinascimenti senza rivoluzioni. L’iconografia di Stieglitz si dipana nel romanticismo della strada… i corpi dei poveri sono avvolti in un sudario di speranze e risentimenti del tutto avulsi dalla realtà e la benevolenza sconfina nel pietismo di maniera… si sacralizza il dolore ma non si deplorano i responsabili da tante sofferenze… allora a Stieglitz vengono in soccorso le nuvole… l’utilitarismo aristocratico respinge tutto ciò che procura sofferenza e l’incanto, il mistero e la gioia della vita offesa sono relegati ai mascheramenti e alle astuzie della ragione mercantile. Una fotografia esigente è quella che contiene il vero e definisce la grandezza di quanto viene calpestato e ucciso… è un lavoro dell’anima in libertà.

Stieglitz è considerato una figura fondamentale per la fotografia mondiale… un maestro della street photography, anche… vero niente. A proposito di questo dandy dell’immagine confezionata nelle pieghe del conformismo autoriale… di colui che ha scattato una delle più violente immagini contro le classi meno abbienti del suo tempo. Si tratta di The Steerage (Il ponte di terza classe,1907), presa sulla nave tedesca SS Kaiser Wilhelm II, una delle più grandi e veloci dell’epoca. È stata valutata una delle fotografie più importanti di tutti i tempi. Raccontia- mola. Stieglitz e la moglie Emmy si sistemano nella prima classe per fare un giro in Europa (i mezzi della famiglia agiata lo permettevano). Mentre passeggiava sul ponte della nave, Stieglitz si affaccia sulla stiva e vede là in fondo (terza classe) un gruppo di cenciosi migranti che andavano incontro al sogno americano… torna in cabina, prende la macchina fotografica e scatta con calma… il nobile tedesco dice che è — “attratto dal biancore della passerella dipinta di fresco, l’inclinazione dell’albero verso il cielo, le bretelle bianche che attraversano la schiena di un uomo nella terza classe, la paglietta bianca di un curioso che guarda in basso” — (a meno che non sputi su quella gentaglia, non è bene in luce). La miseria umana ammucchiata giù nel buio della stiva è solo parte della scenografia. L’innocenza dispersa sulla pelle degli ultimi è propria dei rotti in culo che non hanno nulla da perdere o nessuna catena da tagliare. Ti viene il volta stomaco a vedere di che specie d’imbecilli si servono i grandi monopoli del sapere. C’è proprio da ridere. Per scattare The Steerage Stieglitz usa una Auto-Graflex (caricata con una lastra di vetro 4×5). La fa sviluppare a Parigi qualche giorno dopo da un fotografo che è rimasto anonimo e subito riconosce (ma i biografi discordano sull’attribuzione della frase) di avere contribuito a fare “un’altra pietra miliare nel campo della fotografia” (Alfred Stieglitz). E pensare che nessuno l’ha buttato ai pescecani.

Basterebbe una veloce lettura dei dipinti di Honoré Daumier (Il vagone di terza classe, 1862) o Gustave Courbet (Spaccapietre, 1849) per comprendere che ogni forma d’arte o è la denuncia politica e sociale di un mondo ingiusto o è solo parte di una dottrina dell’integrazione al servizio della civiltà dei simulacri. Di niente ha tanto paura l’arte contemporanea come di un’opera d’arte che non esalta il consenso ma lo distrugge. L’estetica della carogna non si pone in cielo accanto a Dio, ma si cala in basso vicino agli uomini sfruttati e oppressi. Non c’è fotografia se non c’è un’idea che la sostenga ed esprima le lacrime, il riso e lo stupore di vivere tra liberi e uguali.

La fotografia del diniego non differisce molto da ciò che ispira il reale… la compiutezza estetica figura una rottura con il fascino dell’approssimativo e la mercanzia del banale… idiozia, stupidità, volgarità… sono sempre meritati… le anime morte della fotografia lo sanno… i fotografi si situano fra il santo e l’imbecille ed è per questo che sono prossimi all’immondezzaio dei sentimenti struccati… poiché sono le immagini che ci legano alla vita quotidiana, non ci si può staccare dalla vita (e rovesciarla) senza aver in precedenza rotto con le immagini che l’affogano nella schiavitù e nell’ignoranza. Tutti gli atti della grande fotografia sono impuri… e contengono quella delicatezza da fine del mondo (la filosofia dei momenti unici ed estremi) che non mira alla posterità ma alla rivolta sociale.

Note:

1 Francesco, Laudato sì, Edizioni Paoline, Milano 2015

2 Sappiamo di toccare qui uno dei nomi tutelari della storia della fotografia. La fama di Alfred Stieglizt come mentore della fotografia “impegnata” o “artistica” è una sciocchezza che si portano dietro gli storici accademici o i coglioni che adorano senza ritegno le mitologie a basso prezzo. Stieglitz rappresenta una scrittura fotografica formalista che vede la povertà estrema come effetto estetico, senza mai porsi in contrasto con l’origine di tanta miseria.

3 Henri Cartier-Bresson, Lettera all’agenzia Magnum, 4 luglio 1966, Archivio Magnum; Pierre Assouline, Henri Cartier-Bresson. Storia di uno sguardo, Contrasto, 2015

Articolo tratto da “La fotografia in rivolta” di Pino Bertelli
Edito da Interno4 Edizioni © 2019 

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