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La fotografia come messa in scena

di Pio Tarantini

© Giovanni Gastel, Lisa Graham in forma di conchiglia

Proseguendo nel sintetico percorso di questa rubrica che tenta di affrontare alcuni temi legati ai linguaggi della fotografia, dopo aver accennato ad alcuni temi portanti della storia della fotografia come il reportage sociale e il paesaggio occorre accennare anche a un altro aspetto che caratterizza la pratica fotografica e che si situa su un piano completamente diverso ai primi due. Se la fotografia di reportage e di paesaggio appare saldamente ancorata alla cosiddetta realtà ‒ si tratta cioè di fermare con lo strumento e con lo sguardo dell’operatore frammenti di reale visibile o come esso viene percepito ‒ un’altra pratica di segno molto diverso, se non opposto, ha segnato fortemente la storia della fotografia: quella di una fotografia completamente inventata, dove i soggetti sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non corrispondono ai dati di realtà come comunemente vengono percepiti.

L’adesione alla realtà così come viene percepita dal nostro senso ottico è stata sempre una delle caratteristiche semantiche che hanno distinto la fotografia da altri modi di descrivere e interpretare il mondo su un piano bidimensionale. Con la messa a punto del processo fotografico – epilogo di una lunga storia di ricerche e sperimentazioni che parte dall’invenzione della camera obscura – si ha finalmente la possibilità di realizzare, senza il bisogno dell’abilità manuale del disegnatore, una adeguata e verosimile rappresentazione del reale. Tale rivoluzionaria scoperta produce, a partire dalla metà dell’Ottocento, una sorta di democratizzazione, di massificazione della descrizione del mondo e i prodotti della fatale invenzione, le fotografie, vengono identificate con la realtà e quindi, con un successivo passaggio logico molto più ardito di quanto possa sembrare, con la verità. Una cosa o una persona esiste, è reale, e dunque è vera, e la fotografia è qui a dimostrarlo; ancora di più: è reale, è vera se l’immagine fotografica lo dichiara.

© Man Ray, Henry Miller and Margaret Neiman, 1942. Collezione Ettore Molinario, Milano.

            Dal Pittorialismo alle avanguardie

Fin dagli esordi la fotografia si identifica dunque, per il comune sentire, con la realtà. Ma ancora una volta, per fortuna, la complessità dell’intelligenza umana sin dagli stessi primi anni della fotografia mette in discussione questa aderenza tra fotografico e reale. L’istintivo tentativo di nobilitare il procedimento meccanico in arte fotografica, in un modo d’espressione degno di sedere accanto alle arti visive tradizionali, spinge i fotografi su una china di manipolazione del procedimento in funzione pittorica: gli ultimi decenni dell’Ottocento sono gli anni d’oro del Pittorialismo, una tendenza in cui l’elemento realistico decade, in misura più o meno diversa, a favore di rappresentazioni inventate o quanto meno manipolate. In un arco espressivo molto vasto la fotografia pittorialista varia dal leggero ritocco, che altera in modo discreto l’immagine originale, alla manipolazione totale del fotogramma che non rappresenta più la realtà visibile comunemente percepita.

Come è noto è una storia lunga e complessa che ha le sue radici nelle origini della fotografia: il pittorialismo produsse opere di notevole impatto figurativo ed ebbe una enorme fortuna tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: alcune opere di fotografi importanti come Edward Steichen o il primo Alfred Stieglitz sono diventate icone e pezzi rari e costosissimi delle collezioni museali. Essendo tuttavia obiettivo di questa rubrica non tanto ragionare sugli aspetti storicizzati di decenni lontani ma indagare soprattutto sugli aspetti contemporanei dei linguaggi procediamo velocemente, sempre a proposito di fotografia anti-realistica, ricordando la fondamentale esperienza delle cosiddette Avanguardie storiche: movimenti cioè che nella prima metà del Novecento ribaltarono completamente il tradizionale concetto della pratica artistica: dal Futurismo al Dadaismo al Surrealismo si vissero ‒ soprattutto tra le due Guerre Mondiali ‒ anni di un fervore creativo senza uguali nel campo della sperimentazione e della invenzione di nuovi linguaggi.

Il filone della fotografia non documentaria trovò dunque negli sperimentalismi e nelle invenzioni del dadaismo – e degli altri movimentismi del Novecento – terreno fertile per la ricerca di immagini sganciate dal reale immediato, dal mero documento, e proiettate in una dimensione altra, costituita da immagini in cui la descrizione del reale è decontestualizzata, stravolta nel significato se non addirittura inesistente perché inventata di sana pianta. Anche in questa chiave il percorso della fotografia risulta complesso e ricco, pur volendo rimanere nell’ambito italiano: dalle prime esperienze futuriste – le famose fotodinamiche ‒ all’uso della fotografia in chiave simbolica e concettuale dei nostri giorni.

© Roger Ballen, Waif, 2012, Collezione Ettore Molinario, Milano.

Questi movimenti furono vissuti con grande partecipazione dai fotografi e, tra l’altro, in quegli anni, cominciò a delinearsi una trasversalità di pratica artistica che mise in discussione anche il concetto di specializzazione: anche un artista che praticava strumenti tradizionali come la pittura o la scultura poteva servirsi dello strumento fotografico. Esemplare in questo senso è la figura di Man Ray, che passava indifferentemente dai dipinti e dalle sue anomale sculture dadaiste alle manipolazioni fotografiche. Al proposito ricordiamo la sua famosa frase “Io dipingo quello che non posso fotografare e fotografo quello che non posso dipingere”.

Le fotografie sperimentali di Man Ray ‒ dai rayogrammi alle solarizzazioni ai fotomontaggi ‒ stravolgevano completamente il concetto di fotografia come rappresentazione della realtà. Insieme a Man Ray tanti altri validi artisti si cimentarono con la manipolazione fotografica e tra i tanti ricordiamo l’italiano Luigi Veronesi, che continuò anche nel dopoguerra a produrre opere fotografiche che richiamavano alcune esperienze del mondo dell’arte pittorica come l’astrattismo.

La fotografia dunque approda nella seconda metà del Novecento arricchita di un nuovo e ormai consolidato linguaggio che è quello di una fotografia anti-realistica: la fotografia come messa in scena.

©Pio Tarantini, Homo videns, 2011

            La messa in scena

La fotografia dunque non come descrizione della realtà percepita ma come messa in scena: una vera e propria teatralizzazione, in cui soggetti e oggetti ripresi suggeriscono qualcosa in una scena verosimile ma improbabile perché passa attraverso lo spiazzamento della comune percezione. Oppure si può trattare di immagini in cui poco o nulla risulta realistico, credibile, tutto è palesemente inventato e la fotografia pare rinnegare in toto la natura del suo procedimento ottico-chimico messo a punto per descrivere il mondo. Un procedimento che, negli ultimi anni, sta subendo la grande rivoluzione dell’introduzione del digitale e quindi un procedimento che si può già ben definire, almeno nei suoi aspetti di ripresa e di elaborazione, ottico-digitale. E non è, questa, una notazione meramente tecnologica: così come in passato la scoperta di nuovi modi di ripresa, di elaborazione e di stampa hanno inciso profondamente sul linguaggio, così il digitalesegna una svolta importante non solo nel modo in cui si crea un’immagine ma anche sul senso della stessa. Come appaiono lontane le sperimentazioni futuriste e dadaiste che cercavano di dare altri significati ai soggetti ritratti attraverso ingenue manipolazioni: oggi, soprattutto le giovani generazioni, siamo abituati alla realtà virtuale, una realtà ricostruita interamente al computer che consente di vivere dimensioni fantascientifiche in cui dinosauri o robot o altre creature dell’immaginazione interagiscono in modo assolutamente credibile con attori in carne e ossa. È la messa in scena del più grande spettacolo del mondo, il cinema, di cui la fotografia è un po’ la madre nobile, invecchiata e della quale il digitale rappresenta per alcuni un possibile lifting, per altri un grande rinnovamento.

Nel campo della ricerca artistica fotografica la messa in scena vanta dunque tradizioni illustri e la tentazione di staccarsi, anche solo per un momento, dalla visione analitica, documentaria, ha contagiato moltissimi fotografi, perfino coloro che si occupano di reportage e che quindi per metodo e definizione dovrebbero descrivere la realtà così com’è ma che non sempre hanno rubato l’immagine discretamente, senza interferire con l’azione: basti pensare alla storica discussione che ha messo in dubbio la veridicità della situazione in una delle più famose fotografie di Robert Capa,  “Miliziano colpito a morte”, o alla pesante interferenza di ripresa che modifica necessariamente l’azione nel metodo invasivo del grande William Klein. Se in questi casi la messa in scena risulta appena percepibile, tangente, in altri ambiti è dichiarata, spudorata: si pensi alle fotografie pubblicitarie, di moda o di ricerca artistica in chiave anti-documentaria, surreale e concettuale. Da questo punto di vista negli ultimi decenni la messa in scena in fotografia non solo è stata sempre più praticata ma ha subito quasi un’accelerazione, dovuta forse al bisogno di non restare indietro in un mondo in cui la realtà diventa appunto sempre più virtuale. In questo senso l’introduzione e il predominio del digitale non fa che accrescere la tendenza di molti fotografi a servirsi dei progressi tecnologici per raccontare storie probabili se non impossibili, per suggerire personaggi, situazioni luoghi e concetti immaginari o astratti, lontani comunque dalle robuste certezze realistiche e, per quanto riguarda il nostro Paese, da quelle neorealistiche in sono cresciute intere generazioni di fotografi italiani.

Ne parleremo.

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