Non rientra nell’impostazione di questa rubrica trattare nel dettaglio gli argomenti specifici della fotografia da un punto di vista storico: ribadisco che queste note vogliono solo toccare alcuni temi generali inerenti più ai linguaggi della fotografia e alle loro trasformazioni.
Seguendo questa traccia mi limito, con questa nota che vuole concludere in un certo senso la carrellata sulla fotografia di reportage attuale, a indicare alcuni esempi indicativi dello stato delle cose in questo campo. Ribadisco ancora una volta che gli stili e le modificazioni inerenti ad essi non si manifestano mai seguendo un certo ordine ‒ così come per esempio si è costretti a ricorrere per ragioni di organizzazione didattica e redazionale ‒ ma sempre essi si incontrano, scontrano, convivono e intrecciano in luoghi e tempi diversi fino a coprire un lungo arco di tempo che coinvolge autori di diverse generazioni. Pensiamo, per fare l’esempio italiano che a noi risulta sicuramente più familiare, a quanti bravi fotografi attualmente si dedicano al reportage con risultati di tutto rispetto utilizzando linguaggi diversi che spesso, ma non necessariamente, rispecchiano la generazione di appartenenza.
Stili classici e alcuni autori consacrati
Per la vecchia generazione ricordiamo tra tutti Gianni Berengo Gardin, considerato ormai, anche per una questione anagrafica, il patriarca della fotografia italiana: Gardin interpreta una concezione tradizionale della fotografia come reportage in bianco e nero, culturalmente intriso dell’impegno sociale e della poetica bressoniana ma anche della tradizione documentaria americana. Lui continua a essere espressione di un linguaggio classico, e autore di una mole impressionante di lavori fotografici e pubblicazioni. Non mi dilungo su di lui perché è un autore molto noto, mi limito soltanto a ricordare un suo importante lavoro, realizzato insieme alla fotografa Carla Cerati, che si concretizzò nel volume, pubblicato nel 1969, Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, a cura di F. e F. Basaglia: un lavoro che, sull’onda delle nuove teorie sulla gestione dei manicomi promulgate dallo psichiatra Franco Basaglia, misero a nudo la drammatica situazione dei manicomi, dove i pazienti vivevano in condizioni drammatiche e subivano trattamenti terapeutici ormai inconciliabili con i progressi della scienza e della psichiatria.
Dopo la generazione dei fotografi emersi nei primi anni Cinquanta ‒ oltre a Berengo Gardin i già ricordati nelle note precedenti Mario Di Biasi, Italo Zannier, Nino Migliori, Fulvio Roiter, Luciano d’Alessandro, ma anche altri ‒ emerge negli anni Sessanta una nuova generazione con autori come Ferdinando Scianna, Uliano Lucas, Cesare Colombo, Letizia Battaglia, Fausto Giaccone, Mario Dondero, Lisetta Carmi e tanti altri: tutti accomunati, a grandi linee, da un linguaggio classico, orientato all’essenziale, al contenuto più che alla forma.
Nuove generazioni, linguaggi sempre più diversificati
Di decennio in decennio, con l’aumento consistente di una informazione periodica di massa e la nascita di molti magazine ‒ soprattutto quelli settimanali legati ai grandi quotidiani nazionali: tra i più diffusi Il Venerdì di Repubblica, Sette del Corriere della Sera, Specchio della Stampa ‒ aumenta anche il numero di bravi fotografi più giovani che producono reportage di assoluta qualità con lavori che vengono pubblicati in Italia e all’estero.
Risulta impossibile tentare in questa sede farne un elenco, mi limito a citarne alcuni tra i più noti: da Francesco Cito a Livio Senigalliesi, da Paolo Pellegrin a Davide Monteleone, ma sono davvero tanti perché nuove leve sempre più giovani si affermano a livello internazionale anche grazie a premi che danno una grande visibilità come il World Press Photo. E, in questo pentolone ribollente di energie, i linguaggi ovviamente si modificano: subentra l’uso sempre più consistente del colore in un campo dove il bianco e nero per molto tempo è stato considerato insostituibile; lo stesso procedimento di realizzazione dei servizi fotografici ‒ dalle riprese alla post-produzione al risultato finale stampato ‒ ha subito una trasformazione epocale con il subentro del procedimento digitale: riprese più immediate con possibilità di verificare subito il risultato e operare la selezione, eventualmente intervenire con una momentanea o successiva post-produzione, in caso di servizi d’attualità possibilità di inviare il materiale alle redazioni praticamente in tempo reale.
Tante trasformazioni dunque che investono i linguaggi della fotografia, con l’intrecciarsi di quelle legate alla metodologia operativa e di quelle legate maggiormente alla messa in forma dell’inquadratura. La fotografia di reportage attuale si declina così in tantissimi diversi modi dove a volte la stessa figura dell’autore viene messa in crisi e magari accade che una fotografia realizzata nel posto giusto e al momento giusto anche da un non-professionista con un telefono cellulare ‒ apparecchi che, tra l’altro, sono ormai in grado di produrre immagini con una definizione assolutamente rispettabile ‒ possa diventare una fotografia importante per la sua valenza di testimonianza. Gli esempi di fotografie realizzate in questo modo e pubblicate con grande risonanza sono innumerevoli e continui e in questo caso non conta per niente lo stile della fotografia ma esclusivamente l’oggetto o soggetto di cui si narra.
Le fotografie con i telefoni cellulari
Pensiamo alla grande risonanza che ebbero, nei primi anni del decennio Duemila, le fotografie ‒ tra l’altro a bassa risoluzione e tecnicamente scadenti ‒ dei torturati nelle prigioni di Abu Ghraib, vicino a Baghdad: fotografie realizzate dagli stessi soldati e contractor americani che avevano compiuto le torture e che, una volta rese pubbliche, divennero divulgate dai media di tutto il mondo compromettendo l’immagine dell’esercito americano e dell’allora presidente George W. Bush.
Gli esempi, in questo ambito, sono moltissimi e, per restare in confini più domestici, basti ricordare le recenti fotografie riprese con il cellulare da molti operatori sanitari all’interno degli ospedali durante la prima durissima fase della pandemia nel 2020: la fotografia dell’operatrice sanitaria crollata per la stanchezza sulla scrivania dopo un turno massacrante di lavoro è diventata il simbolo dell’immane e rischioso lavoro che hanno dovuto affrontare i sanitari durante la pandemia.
Il reportage fotografico dunque passa attualmente, con le attuali possibilità di realizzazione e comunicazione visiva, attraverso meccanismi che non richiedono necessariamente la professionalità, là dove il contenuto del messaggio è talmente forte che le qualità tecniche e stilistiche dell’immagine diventano secondarie se non addirittura superflue.
Può accadere così che un noto protagonista della fotografia italiana, Settimio Benedusi, proprio durante il lockdown pandemico ha realizzato un reportage fotografico attraverso una mediazione procedurale che mette davvero in discussione il modo di operare tradizionale. Scrivevo al proposito sul terzo numero della rivista semestrale FC#FOTOGRAFIA E [È] CULTURA: «[…] … le fotografie di Settimio Benedusi, un fotografo eclettico ci portano direttamente nelle sale di alcuni ospedali lombardi attraverso un’operazione mediatica innovativa: in piena pandemia primaverile ha fotografato, o meglio ancora ha selezionato alcuni frame di telefonini cellulari collegati in video-chiamata con operatori sanitari impegnati in prima linea negli ospedali di Milano-Bergamo. Dopo o oltre la fotografia? Se si intende oltre la fotografia tradizionale sì, le fotografie ottenute sono degli screen shot dunque, delle immagini dello schermo, che Benedusi ha pubblicato sul “Corriere della Sera”. L’operazione fotografico-mediatica ha suscitato non poche polemiche ma comunque ha il merito di evidenziare come possa cambiare la realizzazione e la fruizione dell’immagine fotografica ai nostri tempi.
Il reportage come ricerca personale
Tornando tuttavia all’ambito che interessa di più in questa sede, quello cioè della fotografia cosiddetta autoriale, risulta evidente da quanto scritto finora che il discorso sugli stili oggi è veramente vasto e articolato anche se, come mi è capitato di scrivere in qualche precedente nota, alla fine continua a navigare sostanzialmente su alcuni grandi parametri della fotografia contemporanea di reportage acquisiti negli anni Cinquanta e consolidati nella seconda metà del Novecento.
Inoltre c’è da ricordare un altro aspetto, quello che riguarda la fotografia di reportage non necessariamente legata a esigenze giornalistiche ma a ricerche che procedono magari molto più lentamente, autonome da committenti immediati, per le quali la pubblicazione sulla stampa periodica diventa un optional successivo perché nate invece da un’esigenza di ricerca personale dell’autore. E anche qui il campo è ricco di autori e progetti che poi hanno trovato sbocco in pubblicazioni durature come volumi o mostre con relativi cataloghi.
Anche qui gli esempi possono essere infiniti: senza trattare di autori ormai entrati nella storia della fotografia contemporanea ‒ una su tutti, la grande Diane Arbus ‒ mi limito a citare due autori riconosciuti internazionalmente, il britannico Martin Parr (1952), e l’americana Nan Goldin (1953). Il primo è tra i più interessanti fotografi inglesi delle ultime generazioni: si dedica al reportage sociale e realizza numerosi lavori di analisi della società inglese, soprattutto nei suoi risvolti piccolo-borghesi. Modi di vita, atteggiamenti, gusti del ceto medio e popolare sono descritti e completati dalle sue visioni di interni e oggetti che costituiscono una panoramica complessa dell’Inghilterra contemporanea in una chiave visiva ironica, amara e a volte divertente.
Esempio di identificazione tra arte e vita quello invece dell’americana Goldin che si impone negli anni ottanta nel mercato dell’arte internazionale con le sue istantanee a colori che raccontano momenti di vita privati di sé stessa, della sua famiglia, dei suoi amici e conoscenti. Sintomatico fin dal titolo uno dei suoi lavori più noti, The Ballad of Sexual Dependency, presenta situazioni in cui amore e sesso sono presentati nella loro quotidianità con tutte le asperità legate a una tematica così impegnativa. Stilisticamente oscillante tra la situazione banale e quella rivelatrice, contraddizione tipica dell’istantanea elevata a metodo di ripresa.
Le strade del reportage contemporaneo sono davvero tantissime: a ogni fotografo e appassionato il compito di esplorarle avvalendosi tra l’altro delle tante possibilità offerte dalla divulgazione telematica.
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Nato nel 1950 nel Salento, Pio Tarantini ha compiuto studi classici a Lecce e poi Scienze Politiche all’Università Statale di Milano, dove vive dal 1973. Esponente della fotografia italiana contemporanea in quanto autore e studioso ha realizzato in quasi cinquanta anni un corpus molto ricco di lavori fotografici esposti in molte sedi italiane pubbliche e private.
La sua ricerca di fotografo eclettico si è estesa in diversi ambiti, superando i vecchi schemi dei generi fotografici a partire dal reportage, al paesaggio, al concettuale… Leggi tutto
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