Se gli anni Cinquanta erano stati per la fotografia di reportage italiana gli anni del neorealismo e quindi dell’aggancio alla realtà del Paese uscito distrutto dal dopoguerra ma in pieno fervore di ricostruzione, con tutti i pregi e i limiti della situazione, è nel decennio successivo che avvengono cambiamenti veramente consistenti nella pratica del fotoreportage e dei suoi linguaggi.
Ovviamente quando si parla di anni o decenni in cui avvengono determinate trasformazioni lo si fa per una esigenza di semplificazione che può servire per un più immediato inquadramento storico, ma è noto che i cambiamenti sono molto più complessi, intricati nel tempo, cominciano molto prima che si manifestino in maniera plateale e si intrecciano a quelli già radicati che comunque conservano sempre una loro valenza e non scompaiono. Così è accaduto dunque per l’impostazione neorealistica che non è improvvisamente scomparsa ma ha sempre continuato a esistere nei lavori di numerosi bravi fotografi, al più trasformando alcuni aspetti del linguaggio, innescando piccole e grandi nuove modalità espressive.
A proposito della nascita del neorealismo avevo citato nella puntata precedente alcuni capolavori cinematografici che ne avevano segnato anche simbolicamente l’inizio. Lo stesso si può fare con quanto avviene agli inizi degli anni Sessanta quando Federico Fellini che fino a quel momento aveva realizzato film di impostazione poetico-realistica ‒ pensiamo ai due film premi Oscar La strada (1954) e Le notti di Cabiria (1957) ‒ realizza un altro capolavoro, destinato a suscitare scandalo ma soprattutto importante per il cambiamento del linguaggio: La dolce vita (1960). Tra l’altro questo film riguarda in un certo senso il mondo della fotografia perché nella coralità dei numerosi personaggi un posto importante rivestono proprio i fotografi cui Fellini affibbia il soprannome di paparazzi, per definire i fotografi di cronaca impegnati nel raccontare visivamente i piccoli e grandi eventi mondani che avvenivano nella Roma di quegli anni, conosciuta anche come la Hollywood sul Tevere. Fellini e tanti altri bravi registi con altre diverse opere traghettano dunque il cinema italiano, così importante nel mondo in quegli anni come forse non lo è stato più, dalla pratica neorealista a un cinema che guarda sempre alla realtà sociale ma vista attraverso nuovi filtri di lettura, dall’introspezione psicologica all’ironia e a volte anche al sarcasmo, oltre alla visione immaginifica propria del regista riminese.
Feste religiose in Sicilia di Ferdinando Scianna
Nel 1965 viene pubblicato da una piccola casa editrice un volume fotografico dal titolo Feste religiose in Sicilia: si tratta di fotografie realizzate da un giovane Ferdinando Scianna insieme a un lungo testo di Leonardo Sciascia in cui si descrivono e si analizzano alcuni aspetti della religiosità popolare di quegli anni in Sicilia, legata a riti consolidati nei secoli, con radici nella Controriforma cattolica e nella cultura borbonica.
Scrivevo al proposito in un mio saggio di qualche anno fa: «[…] se pur l’acuto e documentato saggio di Sciascia rispecchia il rigore e la serietà dello scrittore siciliano e illumina il lettore su una serie di questioni riguardanti il rapporto tra popolo e religione in Sicilia, è la forza dirompente delle fotografie di Scianna a costituire una novità importante per il linguaggio della fotografia italiana, tanto che il valore del volume travalicò i confini nazionali e adesso fu assegnato il premio Nadar.» Ma, tornando al discorso sul linguaggio, quando Scianna nella maturità, dopo essersi trasferito a Milano per lavorare nel giornalismo, fotografico e scritto, vive per un lungo periodo a Parigi, entra nel giro dell’Agenzia Magnum ‒ uno dei primi e pochi italiani ammessi all’Agenzia ‒ e diventa amico di Cartier-Bresson. Per certi aspetti sostanziali il suo stile risente di quel tipo di poetica ma la novità linguistica che Scianna introduce nella fotografia italiana di reportage è la sapiente contaminazione tra il linguaggio classico che caratterizzava l’Agenzia in quegli anni e quanto di nuovo era avvenuto nel mondo, in primis le già citate rivoluzioni formali di Robert Frank e William Klein. Scianna però, ancor prima di trasferirsi al Nord, racconta i riti religiosi siciliani con un approccio visivo nuovo, spregiudicato, che non disdegna mossi e sfocati, inquadrature sghembe, tagli arditi: è un modo di fotografare veramente nuovo nell’ambito del reportage italiano e non solo, tanto da meritare l’ambito riconoscimento internazionale del Premio Nadar.
Dalla Sicilia a Milano
Insisto nel precisare che gli esempi citati in questi miei contributi di riflessione su quanto è successo nella fotografia italiana di reportage in quei decenni sono sicuramente tra i più significativi ma ovviamente occorre ricordare che il fenomeno fotografia, come ogni fenomeno della cultura, è sempre complesso e costituito da innumerevoli esperienze che a volte navigano separate, a volte si incontrano e a volte si intrecciano.
Proseguendo con alcuni altri esempi di questo ambito reportagistico-editoriale ricordo due altri volumi importanti e ricercati dai collezionisti: Milano, Italia di Mario Carrieri, del 1959, e Milano, di Carlo Orsi e Giulia Pirelli, del 1965. Ambedue i volumi si distinguono per l’originalità dell’impaginazione che organizza graficamente le fotografie in modi nuovi, più liberi e dinamici.
Non è un caso forse che i due volumi abbiano come soggetto Milano: la città che più di altre ha segnato l’avanguardia della ricostruzione in Italia, la città dove tra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta, tra le altre iniziative di modernizzazione nascono i primi grattacieli e la prima vera metropolitana moderna. Sia Mario Carrieri che Carlo Orsi e Giulia Pirelli, realizzano questi due volumi rompendo gli schemi tradizionali: anche in questi casi le fotografie non disdegnano la visibilità della grana della pellicola, gli sfocati, i mossi e le inquadrature ardite e le fotografie non si susseguono più in modo tradizionale, organizzate in gabbie grafiche rigide, ma si organizzano liberamente, spesso al vivo, seguendo un ritmo che deve creare sorpresa visiva a ogni pagina.
La città viene raccontata in toto, con le sue contraddizioni, tra gli aspetti urbanistici della vecchia Milano, con le sue case di ringhiera e i suoi negozietti e laboratori e le nuove moderne costruzioni fino al fascino avveniristico, per l’Italia, dei grattacieli e della metropolitana che agli esordi, con le prime linee, si avvalse del contributo scenografico-ambientale di un designer come Franco Albini.
È interessante notare, a questo punto, l’enorme distanza storico-sociale che separava il lavoro di Scianna sui riti religiosi in Sicilia e le nuove moderne visioni milanesi: due mondi agli antipodi significativi di una antica questione purtroppo, a distanza di altri sessanta anni, non ancora risolta: la questione meridionale.
La fotografia nei magazine degli anni Cinquanta e Sessanta
Oltre agli esempi citati, molti altri fotografi dunque si dedicano nel nostro Paese in quegli anni al reportage sociale testimoniando la società italiana in profondo cambiamento perché si cominciano ad assaporare i primi risultati di un benessere diffuso. Da Gianni Berengo Gardin a Mario De Biasi, sul quale abbiamo scritto nell’appuntamento precedente di questa rubrica, a Giorgio Lotti, Fulvio Roiter, e tanti altri, la fotografia di documentazione acquista sempre più spazio sui giornali e sulle riviste. In questo ambito il mondo editoriale si presenta molto variegato; le riviste popolari trattano principalmente la cronaca nera e rosa: storie di crimini e di personaggi famosi, in particolare i pettegolezzi sulla vita di alcune categorie sociali come i personaggi dello spettacolo, gli appartenenti alle case reali, sia quelle in carica che quelle decadute.
Su un livello più alto si pongono riviste più impegnate come “Epoca”, “L’Espresso”, “Tempo” e “Panorama” che imitano i grandi magazine internazionali più importanti, ma fra queste una rivista che segnò in particolare un nuovo modo di concepire l’informazione settimanale su un livello di riflessione oltre che di documentazione fu sicuramente “Il Mondo” fondata da Mario Pannunzio nel 1949.
La rivista nacque per rispondere alle esigenze di informazione e di cultura di un pubblico laico e liberale, una fetta, minoritaria allora, della società italiana che non si riconosceva nelle principali culture e politiche dominanti. La rivista, per i suoi ottocentonovanta numeri, si serve largamente dell’immagine fotografica per illustrare gli articoli che, fuori da ogni coro, descrivono i fatti e gli aspetti più interessanti di tutto il mondo. Per tutti i fotografi impegnati la pubblicazione su Il Mondo rappresenta una delle poche gratificazioni che il clima culturale italiano offre loro: ma, a onor del vero, al di là del mito che circondava la rivista e che con il tempo si è andato ancor più accentuando, la gestione accentratrice di Mario Pannunzio, mortificò la produzione dei fotografi costretti a dure battaglie per il riconoscimento della firma o per evitare pesanti tagli cui venivano sottoposte, per ragioni di impaginazione, le fotografie.
La quasi totalità delle fotografie apparse sulla rivista, ma anche molte mai pubblicate, sono state raccolte nel Fondo Pannunzio, presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, composto di circa 20.000 fotografie.
Queste riviste soprattutto, più che i quotidiani, furono la palestra per una nuova generazione di fotografi che si stava formando in quegli anni: Cesare Colombo, Uliano Lucas, Carla Cerati, Luciano D’Alessandro, Mario Dondero ‒ solo per citarne alcuni tra i più noti ‒ vasta è la schiera dei fotografi che documentano le contraddizioni di uno sviluppo veloce e spesso incontrollato dove il conflitto sociale, passato il periodo della ricostruzione, diventa importante elemento dialettico nella vita socio-economica del Paese.
È superfluo aggiungere che in presenza di una schiera così vasta di bravi fotografi i linguaggi fossero molto diversi, articolandosi tra i linguaggi classici derivanti dalle esperienze internazionali citate: l’Agenzia Magnum e la poetica bressoniana del momento decisivo, le esperienze degli americani tra gli anni Trenta e i Cinquanta ‒ Walker Evans e gli altri legati soprattutto alla FSA ‒ le innovazioni formali e sostanziali di Frank e Klein. Questo non vuol dire che gli italiani imitassero pedissequamente quanto arrivava dall’estero: al contrario alcune innovazioni stilistiche nascevano anche in Italia perché evidentemente si trattava di vivere un comune sentimento culturale, pur con le dovute differenze, sia di cultura che di tempi.
Una grande generazione insomma di fotografi che, a sua volta, stava preparando il terreno per generazioni ancora più giovani, affacciandosi ai decenni di fine secolo. Ne parleremo.
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Nato nel 1950 nel Salento, Pio Tarantini ha compiuto studi classici a Lecce e poi Scienze Politiche all’Università Statale di Milano, dove vive dal 1973. Esponente della fotografia italiana contemporanea in quanto autore e studioso ha realizzato in quasi cinquanta anni un corpus molto ricco di lavori fotografici esposti in molte sedi italiane pubbliche e private.
La sua ricerca di fotografo eclettico si è estesa in diversi ambiti, superando i vecchi schemi dei generi fotografici a partire dal reportage, al paesaggio, al concettuale… Leggi tutto
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