Quando alle 4 del pomeriggio del 24 febbraio, Mosca ha attraversato il confine e ha cominciato le operazioni in Ucraina, la diffidenza in una marcia diretta su Kiev poneva i territori fuori dal Donbass in una relativa calma apparente, dovuta alla convinzione che non ci sarebbero stati scontri al di fuori dalle province di Donetsk e Lugansk. Per precauzione tutti i negozi sono stati comunque chiusi anche se la gente scendeva in strada comunque e viveva lunghe e monotone giornate tutte uguali. E’ passato un mese dall’inizio del conflitto e molte cose sono cambiate, le strategie iniziali sono saltate, e l’Ucraina sta difendendo il proprio territorio con la condivisione delle immagini più che con le armi. L’Ucraina non è come gli altri paesi dell’ex unione sovietica. Qui l’odore del socialismo non si traduce in minibus affollati, confusione e urla lungo la strada. Qui la vita è povera e lenta. In alcuni bar l’effige del presidente russo indica un orizzonte vuoto. La prima immagine che ricordo di questo conflitto è del 2014, di Andy Rocchelli, un ragazzo e professionista umile, uno di quelli che sa riconoscere il valore umano di un’esperienza e che non lasciava mai un sogno nel cassetto. Ho incontrato Andy pochi giorni prima a Milano nella sede dell’agenzia Luz dove stavo facendo un Master in foto giornalismo d’autore, e il giorno stesso della sua morte ero Pianello Val Tidone per lo stesso motivo, presso il collettivo Cesura di cui è stato membro e fondatore. Il 25 maggio ho appreso dai giornali che era stato ucciso assieme al suo interprete da colpi di mortaio sparati dall’esercito ucraino. Non eravamo amici, ci siamo incontrati solo un paio di volte, ma le circostanze in cui sono venuto a trovarmi mi hanno impresso a caratteri cubitali nella mente una fotografia che ha avuto una grande responsabilità nella mia scelta di venire in Ucraina per essere testimone di ciò che ta accedendo. Parlo di un’immagine che non mostra morte e distruzione, ma guarda i fatti da una prospettiva diversa. La sua intelligenza espressa con delicatezza su un terreno cosi difficile, a volte scontato, mi ha fatto riflettere sull’etica, il senso e il valore che il foto giornalismo di guerra porta con se nell’epoca del digitale, dell’iper reale e della diffusione “peer to peer”. Qual è il confine tra realtà e rappresentazione? Cosa è giusto e cosa e sbagliato? Il falso fotografico è davvero solo una bugia o a volte può portare ad una riflessione? Il realismo apparente delle fotografia può essere ingannevole? Siamo bombardati da immagini che veicolano violenza ogni giorno. C’è chi sente l’obbligo morale di agire e chi invece chi pensa che diffondere le immagini sia eticamente sbagliato. Questa divisione moltiplicata per milioni di condivisioni provoca un’anestetizzazione della morale, e una distorsione nella comprensione della realtà. Ma allora qual è il valore documentale del mezzo? La guerra in Bosnia è stata la prima a colori trasmessa in Tv, la nuova percezione ha annullato la distanza che il bianco e nero pone tra la drammaticità e la realtà. L’invasione Ucraina è il primo conflitto social e fa vivere a chi è seduto sul divano un vero e proprio War drama. Una volta in un saggio ho letto che la veridicità (mezzo fotografico) si trasforma in credibilità (mezzo digitale) che diventa veicolo di un’ideologia. Questo consente alla propaganda di legarsi alla sistemi di produzione e diffusione delle immagini. Mi riferisco al web, e ai social media, che portano l’informazione fuori dal controllo dei giornalisti. In Ucraina stiamo assistendo ad una emarginazione dei professionisti dell’immagine, ogni cittadino con lo smartphone può trasformarsi in un reporter riprendendo la “realtà”, ma mostrando solo ciò che vuole mostrare a favore della propaganda. E la diffusione in rete attraverso i canali dedicati fa in modo che si perda totalmente il controllo sul messaggio e sul mezzo. Le immagini si moltiplicano e tonnellate si GB di atrocità intasano la rete. Si tratta di interpretare la realtà interpretata, un esercizio parecchio difficile anche per uno che tratta l’argomento quotidianamente, figuriamoci per chi lo subisce! Già nel 1973 Susan Sontag scriveva che le fotografie di guerra causano impotenza nell’osservatore, e un senso di paralisi nell’intervenire in un evento che è già passato. Questo spinge all’accettazione, togliendo la capacita di giudizio, spingendo l’acceleratore sulla vendetta portata come giustizia ri-equilibratrice. Bisogna ricordarsi che internet è uno strumento pubblicitario e che una maggior libertà tradotta in maggior accesso alla rete si trasforma in una maggior consumo di servizi. Diciamo la verità, dei russi del Donbass non è mai fregato nulla a nessuno, ne prima ne adesso.
Siamo vittime di una strategia della distrazione che risponde a delle regole ben precise, come analizza il filosofo Noam Chomsky. Prima regola: creare il problema e offrire una soluzione graduale che verrà spiegata alle masse e con toni infantili per evitare di provocare un trauma, puntando sull’emotività e non sulla la riflessione. La nostra opinione è indirettamente influenzata da ogni stimolo a cui siamo sottoposti. Non sono mai stato un negazionista, e ho sempre cercato di trovare soluzioni ai problemi senza arroccarmi su posizioni imposte a tutti i costi sia da una parte che dall’altra, ma le maglie del controllo che sono state create durante la pandemia si stanno stringendo un po troppo, la censura e la distorsione pressoché totale dei fatti è imbarazzante e ne sono testimone, non spettatore. Sostiene Chomsky “i sistemi democratici, non essendo intenzionati a mantenere l’obbedienza con la forza, devono non solo controllare ciò che il popolo fa, ma anche quello che pensa. In poche parole si cerca di rafforzare un senso di colpa e farlo diventare patologico nella popolazione. Cosa porterà la questa crisi? Russofobia, riarmo, censura. Cominceremo a vedere la Russia come una terra popolata da demoni, un luogo oscuro senza alcuna libertà dove la vita è solo sofferenza, perché giudicare è sempre più semplice che provare a comprendere. Paragonare la propria condizione di miseria con una percepita come peggiore è più semplice che migliorare il proprio status. Perché si cerca una soluzione ad una crisi peggiorando le cause che l’hanno generata?La guerra ci sarà? Quando saremo pronti logisticamente ci sarà! La disoccupazione è già alta e presto sarà ai minimi storici e le persone saranno costrette ad una condizione di semi schiavitù legalizzata, purtroppo saremo sempre più dipendenti dal sistema sociale per sopravvivere. E se dopo due anni di pandemia questa fosse l’unica soluzione per far tirare il fiato all’economia? La democrazia, quella vera, sta scomparendo o forse non è mai realmente esistita. La verità si compra? No, la verità non esiste più!
Il mondo in cui siamo cresciuti sta cambiando, con o senza guerra questo è un processo in atto ormai ed è irreversibile. La “disposizione ad ogni sacrificio” imposto alla popolazione è già stato proclamato da un governo non eletto attraverso le collaudate norme pandemiche che di fatto in pochissimo tempo hanno ridistribuito il reddito. Eh si! Perché l’economia risponde alle leggi della termodinamica e come l’energia non si crea e non si distrugge, ma si trasforma in qualcos’altro.
Qualcuno si è mai davvero chiesto il motivo dell’aumento del costo dell’energia avvenuto dopo i due anni di pandemia? I motivi sono di cattiva gestione delle risorse o sono dovuti ad un’implemento strutturale della rete di distribuzione? Ora siamo addirittura minacciati di rimanere senza energia, il che significa mancanza di qualsiasi cosa, acqua inclusa, a meno che non abbiate un pozzo privato o non abitiate a Pian del Re. Questa crisi politica sta conducendo ad una ben più pericolosa crisi economica e ad un immobilismo culturale. Se proviamo a leggere tra le righe, scindendo l’emotività del vivere un conflitto simile, si percepisce con chiarezza cosa accadrà. Il futuro è condizionale, e la storia non si fa coi se e coi ma, ma si ripete e purtroppo noi non impariamo mai nemmeno dai nostri errori diretti, figuriamoci da quelli indiretti che sentiamo lontani.
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Vivo in un piccolo paesino della Liguria, in riva al mare, dove sono tornato dopo aver studiato archeologia, arte e fotografia a Genova, Roma e Milano. Da un decennio sono impegnato in progetti a lungo termine con finalità sociali e di approfondimento in est Europa, Asia e nell’area del Mediterraneo. Utilizzo la fotografia come strumento d’indagine nello studio di ciò che mi interessa e quel che mi circonda. Sono da sempre un sostenitore dell’originalità, riversata nel linguaggio contemporaneo che cerco nella mia scrittura, nelle immagini e nella vita. Sostengo l’editoria indipendente e amo il libro in tutto le sue sfaccettature.
Dopo alcuni corsi di tecnica fotografica a Genova durante gli anni dell’Università decido di approfondire le mie conoscenze sul linguaggio e mi trasferisco a Milano dove frequento l’accademia John Kaverdash. Successivamente, sempre a Milano, partecipo alla Bauer dove svolgo un Master in ritratto fotografico e un Master per Photo Editor, per poi passare all’academy dell’agenzia LUZ.
Infine mi accosto a Door a Roma, frequentando dapprima un Master internazionale sul libro fotografico e svariati workshop con autori internazionali, diventandone membro nel 2019.
Sempre nel 2019 svolgo un Master per curatela museale on line presso Artedata.
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