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3. Una questione di stile

di Pio Tarantini

© Mario Cresci – Autoritratto, dalla serie Attraverso la traccia, 2010.

Continua il viaggio di questa rubrica di riflessione divulgativa attraverso alcuni aspetti del fenomeno fotografia: negli appuntamenti precedenti, visibili in queste pagine, dopo una sorta di introduzione generale sullo stato e sul ruolo della fotografia ai giorni nostri, ho tentato di delineare i motivi che ci spingono a fotografare, il perché quindi, e i soggetti/oggetti delle fotografie prodotte, il che cosa. Concludevo annunciando l’altro importante elemento della questione, il come fotografare, che, in un certo senso ci introduce a una questione molto delicata, la questione dello stile.

© Mario Cresci – Elaborazione da reperti archeologici, dagli Archivi dell’ICCD di Roma, 2019. Courtesy Mario Cresci- Archivi ICCD, Roma.

            Modi (e mode) di fotografare: le premesse storico-critiche.       

Acquisito dunque che ci sono sufficienti motivi per continuare a fotografare a un livello diverso da quella che potremmo definire una fotografia di massa, incentivata e moltiplicata dal procedimento digitale, e acquisito che i soggetti/oggetti della fotografia sono elementi da sempre presenti nella storia dell’uomo, dai grandi eventi alle piccole cose comuni, per una fotografia più ambiziosa risulta invece necessario tentare di delineare adesso in che modo si fotografa dal punto di vista della messa in forma, dal modo cioè in cui il fotografo organizza visivamente all’interno di un poligono la porzione di mondo che sceglie di trasferire su un supporto bidimensionale, sia attraverso un procedimento analogico che digitale. Questa questione infatti si pone come la vera discriminante tra una fotografia comune, banale, destinata a essere prestissimo dimenticata se non contiene almeno qualche aspetto di documentazione o informazione nuovo, e una fotografia invece che magari, pur trattando argomenti e fatti noti o avendo per soggetto qualcosa di risaputo, attrae lo spettatore perché contiene in sé una sorta di sex-appeal visivo che la fa distinguere dal resto.

A questo punto la questione si complica non poco perché nel corso del dibattito critico degli ultimi decenni sono state elaborate molte diverse risposte, a partire dagli anni Sessanta, anni importanti per la riflessione e divulgazione, tra l’altro, delle teorie sociologiche e semiologiche e del dibattito intorno ad alcuni temi dell’arte visiva e della fotografia: oltre al già citato volume di Pierre Bourdieu Un art moyen. Essai sur les usages sociaux de la photographie [Un’arte media. Saggio sull’uso sociale della fotografia], del 1965, il volume Arte e percezione visiva, del 1962, di Rudolf Arnheim, e i saggi sulla comunicazione del sociologo canadese Marshall McLuhan e di Umberto Eco.

Nei successivi anni Settanta infatti venivano pubblicati alcuni testi, anche questi in parte citati negli appuntamenti precedenti ‒ di Gisèle Freund (Fotografia e società [1974]); Susan Sontag (Sulla fotografia [1977]); Roland Barthes (La camera chiara [1980]) ‒ che si rivelarono illuminanti rispetto a una serie di problemi relativi a un modo di esprimersi visivo, la fotografia, che nel momento in cui cominciava la divulgazione di massa di una sorta di presa di coscienza di sé che la fotografia acquisiva, si scontrava tuttavia con nuovi procedimenti di comunicazione visiva. La televisione prima e la telematica poi, ribaltavano il concetto di testimonianza nella sua dimensione spazio-temporale perché, tra l’altro, questi due mezzi possono agire in tempo reale, al contrario della fotografia che cristallizza un determinato momento definendo immediatamente il piano temporale su ciò che è già avvenuto.

E dobbiamo dire che anche in Italia, in cui pure si scontavano i ritardi di una cultura che aveva sempre guardato con diffidenza e superiorità alla fotografia, si aprì una nuova e interessante stagione critico-pubblicistica: dal volume del 1973 La fotografia, di Ugo Mulas, all’imponente e complessa Storia sociale della fotografia, (1976), di Ando Gilardi; dalle riflessioni di Luigi Carluccio e Daniela Palazzoli in Combattimento per un’immagine (1973) ai saggi di  Carlo Bertelli e Giulio Bollati, in L’immagine fotografica 1845-1945 (Storia d’Italia, Annali 2 Tomo I e II, Einaudi, Torino 1979) fino al provocatorio Fotografia e inconscio tecnologico, del 1979, di Franco Vaccari.

Nel nostro Paese dunque si usciva finalmente dal ghetto fotoamatoriale dove aveva primeggiato una cultura critica tardo idealistica di stampo crociano per affrontare di petto queste questioni cruciali sullo statuto della fotografia, sul suo senso, sui suoi modi.

© Mario Cresci – Geografia naturalis 1975-2011.

            La messa in forma tra estetismo e stile

Il modo di fotografare si riferisce dunque agli aspetti relativi alla realizzazione di una fotografia da un punto di vista della messa in forma, là dove questa locuzione non si riferisce però soltanto all’aspetto puramente formale, superficiale, estetizzante, ma alle caratteristiche visive che rispondono a una certa idea o esigenza di linguaggio. Come ho avuto modo di scrivere già in una nota preliminare di queste pagine sto insistendo, nelle mie esternazioni ma anche attraverso una rubrica della rivista semestrale FCFOTOGRAFIA E[È] CULTURA, per diffondere l’idea, già espressa da  molti anni da diversi operatori, che nell’esprimere un giudizio su una fotografia non si deve parlare di bella fotografia ma al più di buona fotografia. Il concetto di bello infatti può risultare fuorviante così legato, soprattutto tra chi non possiede gli elementi basilari di linguaggio critico, ad aspetti superficiali e in genere legati ad aspetti di sapore pittorialista, dove l’accentuazione di tonalità, la ricerca della suggestione coloristica, la forzatura della messa in scena o il bozzettismo, molto spesso orientano lo spettatore di queste immagini verso una fruizione molto elementare, di basso livello linguistico e che scade spesso nel Kitsch.

In parole povere e per far capire meglio quanto sto affermando attraverso esempi banali: non è la suggestione dei colori accesi di un tramonto o la singolarità curiosa di una scena o la scelta di un punto di vista ardito e insolito a costruire una buona fotografia. O per lo meno queste forzature possono funzionare soltanto quando sono coerenti con la struttura del linguaggio che si è scelto: se invece sono escamotage occasionali per far colpo, per realizzare la fotografia strana e suggestiva, restano soltanto tentativi ‒ più o meno riusciti, più o meno mediocri ‒ di un linguaggio amatoriale.

La scelta del bianco e nero o del colore, della luce, della tonalità, dell’inquadratura e del punto di vista e di tanti altri fattori che contribuiscono a realizzare un’immagine fotografica devono esser sempre funzionali al discorso che si vuole realizzare non dimenticando mai che ci si muove sempre in un ambito in cui le diversità di linguaggio visivo in genere non fanno altro che ricalcare, magari in mille modi diversi, quelli che sono i canoni acquisiti nel corso di decenni nei diversi linguaggi della fotografia e di converso della intera cultura visiva bidimensionale.

© Mario Cresci – In aliam figuram mutare, 2016.

            La questione dello stile: quanto dobbiamo alla storia

Qui subentra dunque la questione dello stile. Una questione molto delicata perché l’enfatizzazione di questo aspetto e la inopportuna o inadeguata applicazione di questa definizione ai progetti fotografici che numerosissimi si avvicendano sulla ribalta del palcoscenico della fotografia ‒ anche di quello più prestigioso che fa riferimento a grandi e noti autori ‒ può portare lo spettatore ad avere una errata percezione di come stiano realmente le cose riguardo alla questione dello stile. Anticipavo già qualcosa in tal senso nel primo di questi interventi in cui ricordavo la massima “siamo nani sulle spalle dei giganti”: perché ribadisco che risulta davvero difficile inventarsi a ogni piè sospinto uno stile nuovo. Al più, anche nei casi dei grandi fotografi, molto spesso si ripercorrono con occhio leggermente diverso strade già aperte da altri.

Per citare un esempio ricordo un caso che ripresi nella mia raccolta di articoli e saggi Fotografia araba fenice. Note sparse tra fotografia cultura e mestiere di vivere, pubblicata nel 2014: uno degli articoli affrontava proprio questa questione, prendendo spunto dalle discussioni critiche nate intorno al film di Paolo Sorrentino La grande bellezza. Intorno a quel film, premio Oscar, si sviluppò un dibattito che affrontava la questione di quanto quella pellicola avesse come riferimento stilistico il capolavoro felliniano La dolce vita: i rimandi, sotto molti punti di vista erano tanti, dalla struttura del plot alle divagazioni visionarie, alla amara ironia e disincanto verso il mondo che percorre i due film. Questo quanto dovuto da Sorrentino a Fellini: ma questo aspetto non inficia certamente la qualità del film La grande bellezza che il regista ha saputo realizzare con grande sapienza e sapendo reinterpretare e per certi aspetti innovare la lezione del Maestro riminese. Uno stile dunque che si rifà a un’esperienza già praticata ma che nello stesso tempo la reinterpreta e rinnova. Allo stesso modo, per tornare al campo della fotografia, in quell’articolo citavo il notissimo lavoro Genesi del fotografo brasiliano Salgado, ricordando che, pur nell’altissima qualità di quella ricerca, la stragrande maggioranza delle fotografie di paesaggio si servivano di un linguaggio visivo classico, che già i fotografi americani della cosiddetta “fotografia pura” ‒ come Edward Weston e Ansel Adams ‒ avevano praticato nei decenni di metà Novecento.

Anche autori grandi e consolidati come Sorrentino e Salgado quindi, dal punto di vista dello stile, non hanno inventato nulla di totalmente originale ma hanno saputo utilizzare al meglio strumenti stilistici già praticati precedentemente.

In questo senso in fotografia si potrebbero fare tanti altri esempi; un altro tra i tanti può essere quello degli stili legati al reportage contemporaneo di cui ci occuperemo prossimamente ma si potrebbe continuare all’infinito con esempi in tutti gli ambiti di azione della fotografia, questa questione che affronteremmo più dettagliatamente man mano che si presenteranno le occasioni di approfondimento di queste note. L’importante, in questo primo approccio alla questione dello stile, è chiarire che inventarsi e definire uno stile personale non è propriamente un processo facile, anzi direi quasi impossibile: dovremmo perciò essere soddisfatti di essere coscienti di quanto dobbiamo alle esperienze precedenti che si sono avvicendate nel corso della complessa storia della fotografia. Ogni tanto capita che alcuni autori che insieme al talento possiedono una grande capacità di innovazione creativa riescano a concretizzare nuove chiavi di lettura visiva del mondo e a quel punto incidono profondamente nel mutamento del linguaggio.

Ne parleremo.

Le fotografie che accompagnano questo terzo appuntamento di Fotografia e dintorni sono di Mario Cresci, uno dei più importanti fotografi italiani che nel corso di un lungo e articolato percorso ha attraversato molti ambiti della ricerca fotografica, dal reportage di stampo neorealista al paesaggio alla fotografia concettuale ma sempre mantenendo altissimo il livello della sua ricerca. Le fotografie selezionate sono tra quelle di lavori relativamente recenti.

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